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Versione italiana di
Gianluca Bolelli
Pubblicato il
18 apr 2018
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Gildo Zegna: “Non c’è nessun piano per quotarci”. E l’utile di Zegna fa passi da gigante nel 2017

Versione italiana di
Gianluca Bolelli
Pubblicato il
18 apr 2018

Pochi marchi italiani di lusso hanno saputo resistere così bene alla lunga fase di rallentamento che sta caratterizzando l’economia mondiale come Ermenegildo Zegna, che ha appena pubblicato ottimi risultati per il 2017, nonostante un periodo di crescente competizione nel settore dell’abbigliamento maschile di fascia alta.

Gildo Zegna


Ermenegildo Zegna ha appena annunciato un balzo in avanti del 64% dell’utile netto, a 32,8 milioni di euro, segno che i suoi clienti, anche quelli di lungo corso, hanno apprezzato il nuovo stile, più elegante e trendy, dato al brand dal direttore creativo Alessandro Sartori, approdato in Zegna nel giugno del 2016.
 
La crescita è stata più modesta l’anno scorso, visto che i ricavi sono aumentati del 2,3%, a 1,18 miliardi di euro, nel 2017. Ciò nonostante, Zegna rimane uno dei principali marchi-bandiera dell’Italia nel mondo. Un’azienda quasi perfetta; dal suo esclusivo reparto tessuti, sempre all’avanguardia nell’innovazione, alla sua fabbrica di confezione d’alta gamma di ultima generazione in Piemonte, alla rete di oltre 500 flagship e punti vendita in location autorevoli. Non sorprende che il suo sito web dichiari: “Ermenegildo Zegna è un'azienda completamente integrata verticalmente, il che significa che possiamo supervisionare ogni fase della preparazione del tessuto: dalle pecore al negozio”.

Tuttavia, non aspettatevi che la firma italiana, dall’alto dei suoi 107 anni di storia, voglia seguire il percorso intrapreso da altre famiglie locali che gestiscono marchi di lusso, che hanno puntato su una quotazione in Borsa. Questo è l’ultimo dei progetti del leader della famiglia, Gildo Zegna, che abbiamo incontrato per una chiacchierata a ruota libera nella quale si è parlato delle sfide digitali, della gestione di un marchio globale, dell’avere a che fare con un mercato in rapida evoluzione e di come gestire in modo ottimale il talento del suo direttore artistico Sartori, tanto acclamato dalla critica.
 
“Siamo ancora e completamente un’azienda a conduzione familiare. Al 100% privata. Naturalmente, non venderemo mai. Perché vendere? Non esiste! Ci atteniamo alle nostre radici, alla nostra passione. Non c’è motivo per fare qualcos’altro”, insiste Gildo, davanti a un caffè nel suo ufficio nella zona sud di Milano.
 
“Di sicuro, dobbiamo stare all'erta e molto vigili. È un mercato difficile, con tanta pressione e molti rischi. Tanti big stanno diventando molto bravi nel menswear. Inoltre i francesi stanno diventando sempre più forti e aggressivi”, ha affermato Gildo, che non ha voluto indicare nomi precisi di brand (anche se si capisce chiaramente che si riferiva a marchi come Dior Homme, Berluti o Brioni).
 
Come è messo Zegna nel campo digitale?
 
“Si sente spesso parlare di disruption, di rivoluzione digitale, ma il cambiamento più brusco e rapido è stata la competizione. Pochi anni fa, i nostri competitor erano gli specialisti dell’abbigliamento. Ora non più. Oggi, i clienti desiderano un servizio, un prodotto e un'esperienza diversi – più emozionanti ed eccitanti. Articoli facili e divertenti da indossare e adatti per viaggiare”, spiega Gildo, lui stesso vestito con un abito sartoriale di flanella monopetto a tre cuciture firmato Ermenegildo Zegna, un dolcevita in cashmere e seta e dei Chelsea boots. Sul suo colletto il nastro di Cavaliere del Lavoro, titolo onorifico assegnatogli dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel 2011.

Alessandro Sartori - Photo: Luca De Santis


La metà del fatturato di Zegna proviene dalla Sartoria e dal Su Misura; cinque anni fa era il 70%! Questo cambiamento è altrettanto evidente in Cina. Dieci anni fa lei ha detto che la Cina era il progetto della nostra generazione. Com’è andata?
 
La Cina è il primo mercato mondiale. Dopo due anni di riorganizzazioni, nel 2015 e nel 2016, abbiamo reagito molto bene. I cinesi sono acquirenti molto intelligenti. Viaggiano, amano le innovazioni e sono molto aperti mentalmente alle novità. La Cina rappresenta quindi sempre più un banco di prova per idee, progetti o materiali.
 
Nella regione della Greater China abbiamo circa 80 negozi, contro i 90 prima del conslidamento. In Cina avresti quasi bisogno di possedere dei negozi su ruote, facilmente trasferibili, perché i centri delle città si spostano continuamente. Diciamo che se hai un negozio a Milano su Via Montenapoleone, questo potrebbe continuare ad essere il tuo flagship per le successive tre generazioni; in Cina forse dovrai spostarlo più volte in un decennio. I francesi sono stati i migliori nel trasferire negozi e rilocalizzarli. Una location in un quartiere considerato di lusso l’anno prima può arrivare a decadere d’interesse rapidamente già l’anno dopo. E quindi bisogna anticipare tutto questo, e i francesi sanno farlo. In Cina, più che in ogni altra nazione, è tutta una questione di posizione. In quale centro commerciale sei? E chi è il tuo vicino? I contratti di locazione in Cina durano generalmente 5 anni e poi puoi uscirne. Non è come in America, dove devi andare in questi mall che insistono perché si stipulino contratti di affitto di 10 anni che ti uccidono!”.
 
“A Parigi ci troviamo ai Printemps, al Bon Marché e alle Galeries Lafayette, e possediamo negozi su avenue George V e faubourg St Honoré. Sfortunatamente, quest’ultimo punto vendita si trova quasi di fronte al palazzo dell’Eliseo, il che ha un impatto sulle presenze. Facciamo bene, ma al momento non è uno store che dia risultati sensazionali”, dice Gildo, il quale aggiunge che ora il marchio ha 500 negozi, la metà dei quali gestiti direttamente da Zegna, il resto sono franchising e corner.
 
Qual è il suo punto di vista sul ‘See Now Buy Now’?
 
Non ci credo, e noi non partecipiamo a quel gioco. La nostra catena di approvvigionamento è già abbastanza veloce; siamo in grado di trasformare e distribuire la merce in tempi molto rapidi. Facciamo già 8 lanci all’anno, e prevediamo addirittura di passare a 10 fra pre-collezioni e capsule collection”.
 
Alessandro Sartori ha sviluppato il “Techmerino”, un blazer lavabile in lavatrice che basta appendere perché si asciughi. E la linea Oasi Zegna, la collezione di tessuti d’alta gamma, è tinta con foglie, erbe e radici raccolte in loco. Quanto è importante l'innovazione tessile per il vostro marchio?
 
“Abbiamo circa una dozzina di persone che lavorano allo sviluppo di nuovi materiali da Zegna. Oasi era in realtà qualcosa che avevamo nel cassetto da una decina d’anni, ma i tempi per proporla non erano maturi. Però alla fine, quando l’abbiamo mostrata, il successo è stato fenomenale! Può essere una linea che non vende tanto, ma il messaggio che comunica è molto forte. La realizziamo totalmente noi, tutti i colori usati provengono da dove veniamo; è unica – è impossibile replicarla con colorazioni chimiche.

Una foto della campagna pubblicitaria "Defining Moments" con Dev Patel e Javier Bardem - Ermenegildo Zegna


Cosa state facendo per la sostenibilità?
 
“Oasi è un buon esempio. Quasi tutti i nostri tessuti sono naturali e prodotti internamente nelle nostre fabbriche. Dove l’energia è prodotta dalle nostre due centrali idroelettriche. Questa è pura sostenibilità. Siamo stati stupidi a non comunicarlo prima. Lo stiamo facendo da decenni!”, ha puntualizzato Gildo, uno dei quattro membri della terza generazione della famiglia Zegna, che dirige ancora il business aziendale.
 
Nel 1918, il fondatore Ermenegildo Zegna sognava di creare i migliori tessuti possibili quando ha iniziato a lavorare disponendo di soli quattro telai. Il figlio di Gildo, Edoardo, è entrato in azienda nel 2015, dopo aver lavorato nel retail in America. Zegna ha qualche regola aziendale, come nel caso dei discendenti di Salvatore Ferragamo, che limita rigorosamente l'ingresso nel business familiare ad un solo membro di ogni ramo della famiglia?
 
“Quella è una loro scelta. Noi abbiamo regole rigide e regolamenti severi in termini di governance. I membri della famiglia devono essere laureati e parlare delle lingue straniere. Devono possedere le capacità necessarie per svolgere il lavoro che potrebbe esser loro offerto. E devono aver lavorato all’estero per 5 anni. Lavori seri, in modo che possano entrare in azienda possedendo già una certa esperienza e anzianità di servizio. Non bullshit jobs, cioè lavoretti del cavolo – come gli stage come PR a New York per un paio di stagioni!”.

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