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Versione italiana di
Gianluca Bolelli
Pubblicato il
19 mag 2023
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Uiguri: contro i brand una nuova denuncia per “occultamento di crimini contro l'umanità”

Versione italiana di
Gianluca Bolelli
Pubblicato il
19 mag 2023

Dopo l'archiviazione di una denuncia presentata in Francia nell'aprile 2021 contro Uniqlo, SMCP, Inditex e Skechers USA, varie ONG ne stanno ora presentando una nuova costituendosi parte civile. L'obiettivo è ottenere dalla giustizia un'indagine sui legami tra tutti i player dell'abbigliamento, e non più unicamente le quattro aziende iniziali, e lo sfruttamento della minoranza uigura nella filiera tessile.

Questa nuova procedura è avviata dalle ONG Sherpa e Collectif Éthique sur l'Étiquette, nonché dall’Istituto Uiguro d’Europa e da una denunciante uigura. La denuncia si basa sul reato di occultamento di quattro reati: crimini contro l'umanità, genocidio, riduzione in schiavitù aggravata e tratta di esseri umani in associazione a delinquere.

“Le associazioni chiedono l'apertura di un'inchiesta giudiziaria affinché un giudice istruttore possa indagare e far luce sulle possibili responsabilità delle multinazionali dell'abbigliamento che trarrebbero profitto dal lavoro forzato degli uiguri per la fabbricazione dei loro prodotti”, affermano le Organizzazioni Non Governative in un comunicato congiunto, ricordando che il 20% della produzione mondiale di cotone proviene dalla provincia dello Xinjiang.

Shutterstock


Una provincia in cui gli uiguri sono comunemente usati per la raccolta e le fasi di trasformazione del cotone in indumenti. Un lavoro forzato denunciato dalle ONG e che le autorità cinesi non nascondono, richiamando all’attenzione di tutti di voler praticare una strategia di integrazione attraverso il lavoro della minoranza musulmana locale.

“Con la commercializzazione di tali prodotti, l'industria dell'abbigliamento trae profitto dai gravi crimini commessi contro questa popolazione”, affermano le organizzazioni. “Mentre la repressione contro gli uiguri continua, e di fronte alla debolezza della risposta degli stati contro il regime cinese, la giustizia può svolgere un ruolo importante nel far luce sulla responsabilità degli attori economici che beneficiano di un'economia di genocidio e la alimentano”.

La denuncia depositata nell'aprile 2021 nei confronti di quattro player del settore dell’abbigliamento ha dato luogo nel giugno successivo all'apertura di un'inchiesta da parte dei tribunali francesi tramite la Procura Nazionale Antiterrorismo (PNAT). Quest'ultima ha comunicato il 12 aprile scorso la chiusura dell’indagine senza ulteriori accertamenti, “a causa dell'incompetenza del PNAT a perseguire i fatti oggetto della denuncia”. Un capovolgimento dell'istanza di fronte al quale le ONG manifestano la loro incomprensione.

“Le aziende di abbigliamento dovranno risponderne”

La denuncia iniziale accusava Uniqlo France (di proprietà del gruppo giapponese Fast Retailing), Inditex (che possiede i marchi Zara, Bershka, Massimo Duti), SMCP (Sandro, Maje, Fursac, ecc.) e il marchio di calzature Skechers di aver commercializzato prodotti realizzati in tutto o in parte nelle fabbriche dove gli uiguri sono sottoposti, secondo queste associazioni, a lavoro forzato.

I ricorrenti ritengono inoltre che tali società non effettuino controlli sufficienti presso i loro subappaltatori. Il loro avvocato, William Bourdon, auspica il “riconoscimento della giurisdizione” della giustizia francese “sulla base dell'occultamento di crimini contro l'umanità”.

“Le aziende di abbigliamento saranno chiamate a rispondere del fatto di essersi arricchite consapevolmente a costo dei più gravi crimini internazionali, sullo sfondo di una loro comunicazione etica di pura facciata”, ha aggiunto.

“Niente lavori forzati!”

I quattro gruppi bersaglio della denuncia contestano qualsiasi ricorso al lavoro forzato. Sentito mercoledì scorso, il colosso spagnolo Inditex ha affermato di aver “commentato pubblicamente, e in diverse occasioni, che queste accuse sono infondate”: “il gruppo effettua rigorosi controlli di tracciabilità per garantire la provenienza dei suoi prodotti e pratica tolleranza zero contro qualsiasi forma di lavoro forzato”.

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Il gruppo SMCP dal canto suo le ha definite all'agenzia AFP “accuse diffamatorie”, parlando di una “strumentalizzazione della giustizia”. Secondo la società francese tali accuse sono ​​“ancor più infondate visto che SMCP è stata ritirata nel 2022 dal rapporto dell'ONG ASPI, che è servito da base per la presentazione delle denunce in prima istanza”.

Il gruppo Fast Retailing ha invece affermato di “non essere stato informato di ciò dalle autorità. Se mai lo saremo, coopereremo pienamente con le indagini per dimostrare ancora una volta che non c'è lavoro forzato nelle nostre catene di approvvigionamento”.

Skechers non ha risposto nell’immediato alle richieste di commento.

Oltre a questi quattro gruppi, altri grandi nomi dell’abbigliamento (Nike, Adidas, Shein, ecc.) o di altri settori dell'industria sono nel mirino di accuse analoghe.
 
Alcuni marchi si sono impegnati negli ultimi anni a non utilizzare il cotone dello Xinjiang (un quinto della produzione mondiale), ma faticano a dimostrare di avere le carte in regola davanti alla cascata di subfornitori di cui si servono.

Da diversi anni le autorità cinesi sono accusate dai Paesi occidentali di aver rinchiuso in massa in molti campi di rieducazione gli uiguri e i membri di altre minoranze a maggioranza musulmana, compresi i kazaki, dopo sanguinosi attacchi nello Xinjiang.

Washington e molti Paesi accennano a un “genocidio” e l'Ufficio dell'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani parla di crimini contro l'umanità. Accuse respinte da Pechino, che definisce tali campi come centri di formazione professionale destinati a combattere l'estremismo religioso e garantire stabilità sociale.

Con AFP

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