Trasparenza: quali sono gli angoli ciechi nel settore della moda?
Il Transparency Index elenca le aziende di moda maggiormente impegnate nella responsabilità sociale e ambientale (leggete il nostro articolo dedicato). Ma offre anche una panoramica delle tematiche di Corporate Social Responsibility (o Responsabilità Sociale d’Impresa) per il momento ancora poco o non affrontate dal settore, e che dovrebbero, a regime, assumere grande importanza nella costruzione di una filiera sostenibile ed equa.
Per realizzare questo indice sono stati contattati circa 250 grandi marchi internazionali. Il 62% di loro ha completato il questionario, rispetto al 37% che non ha risposto e all'1% che si è semplicemente rifiutato di partecipare al sondaggio. Alla fine, emerge che un gran numero di temi è ancora solo marginalmente affrontato apertamente dagli intervistati. Inoltre, pochi di loro sono in grado di - o sono disposti a - segnalare informazioni specifiche sulla loro catena di approvvigionamento o sulle proprie pratiche commerciali.
Questo è particolarmente il caso del "ring-fencing", una pratica di acquisto con la quale un committente protegge il costo del lavoro in modo che non sia influenzato dalle trattative. Per ora, solo il 4% dei marchi menziona il metodo "ring-fence". E solo il 2% indica il numero di ordini in cui è avvenuta questa separazione fra trattativa e salario.
In più, solo il 35% dei marchi annuncia espressamente il proprio approccio alle "commissioni di assunzione", una pratica mediante la quale vari produttori addebitano ingenti somme ai loro nuovi dipendenti (spesso per motivi di formazione o di dotazione di attrezzatura). Dipendenti che a volte si indebitano per diversi anni con il datore di lavoro. Nel dettaglio, solo il 6% degli intervistati è in grado di - o è disposto a - comunicare il numero di lavoratori interessati da questa pratica presso i propri fornitori. Il 24%, invece, pubblica i dati sul rischio di "schiavitù moderna" nella propria catena d’approvvigionamento.
Per quanto riguarda il salario dignitoso ("living wage"), per il quale una coalizione ha appena lanciato una campagna europea, solo il 27% delle aziende specifica il proprio rapporto con questo salario minimo di sussistenza (da non confondere con il salario minimo legale). Solo il 4% degli intervistati indica di quanto il salario dei lavoratori occupati tra i propri fornitori superi i salari minimi legali locali.
Genere, etnia e sovrapproduzione
Anche sulle questioni etniche la moda sembra essere in ritardo. Mentre il 34% dei marchi pubblica i propri dati sui divari retributivi di genere nella propria catena di approvvigionamento, solo il 3% lo fa per quanto riguarda i divari per etnia. Sono leggermente di più (8%) coloro che indicano di adottare azioni incentrate sulla promozione dell'uguaglianza razziale ed etnica tra i propri fornitori.
In termini di lotta alla sovrapproduzione, sembra che solo il 15% degli intervistati specifichi le quantità di abbigliamento che produce annualmente. Per quanto riguarda la durata dei prodotti, emerge che ora il 20% dei marchi offre servizi di riparazione. Il noleggio di capi di abbigliamento o la rivendita di prodotti di seconda mano verrebbero ora adottati dal 21% del panel.
Materiali, emissioni e inquinamento delle acque
I brand sono invece molto più impegnati sul fronte delle materie prime. Non meno del 45% di loro segnala strategie misurabili e limitate nel tempo per quanto riguarda l'uso di materiali sostenibili. Un dato però da prendere con cautela: sono meno numerose (37%) le aziende che definiscono chiaramente ciò che considerano un materiale sostenibile.
In termini di impatto climatico, il 29% dei marchi pubblica attualmente un obiettivo di decarbonizzazione quantificato verificato dall'iniziativa Science-Based Targets, sistema sostenuto dall'ONU e dal World Wide Fund for Nature. D'altra parte, il 65% dei marchi pubblica ora un'analisi annuale della carbon footprint delle proprie attività (negozi, uffici, ecc.). L’angolo cieco in quest'area è costituito dall'impatto di carbonio dei materiali utilizzati dai loro fornitori, di cui solo il 22% dei marchi pubblica i dati. Solamente il 14% degli intervistati segnala inoltre un impegno misurabile nella lotta alla deforestazione.
Sul versante dell'inquinamento delle acque, e degli scarichi causati da lavorazioni, tinture e altri lavaggi, emerge un nuovo dato sorprendente: nella fase delle materie prime, solo il 4% dei brand è in grado di (o è disposto a) pubblicare i dati di impatto sull'acqua. Il 27%, invece, si è impegnato a eliminare il ricorso a sostanze chimiche pericolose per l'ambiente.
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