Trasparenza nell'uso della viscosa: H&M e Inditex fanno meglio di Dior e Prada
L’ultimo rapporto appena pubblicato dalla Changing Markets Foundation, mostra segnali incoraggianti rispetto agli approcci dei marchi di moda per limitare il loro inquinamento legato all’utilizzo della viscosa. L'ONG mette in evidenza gli sforzi compiuti da New Look, Inditex, Asos, H&M, M&S, Esprit, C&A o Next. Ma rileva anche la mancanza di trasparenza di alcuni grandi nomi del settore.

I dti sono stati raccolti dalla CMF in occasione di un approccio concertato con Fashion Revolution, Ethical Consumer, Clean Clothes Campaign e WeMove. Circa 90 tra marchi e gruppi internazionali hanno fornito dati sulle attività relative alla viscosa.
Alternativa al cotone che ha bisogno di tanta acqua nella sua lavorazione o al poliestere a base di petrolio, questo materiale a base di pasta di legno è il terzo più utilizzato dall'industria tessile. Ma la sua origine forestale non impedisce di determinare un impatto negativo sull’ambiente, con un buon numero di produttori che per molto tempo hanno avuto poca considerazione per lo scarico delle loro acque reflue.
La Changing Markets Foundation produce a intervalli regolari un documento che indica la percentuale di viscosa negli approvvigionamenti dei marchi interpellati, così come la politica di fornitura messa in atto, la trasparenza sui fornitori e l’accessibilità delle informazioni sulle pagine di vendita.
Quattro categorie sono formate sulla base di questi criteri. Prima di tutto i "frontrunners" (“capolisti”), che in quest’ultima classifica sono soprattutto Esprit, Marks & Spencer, Asos, C&A, H&M, New Look, Next e Inditex. In seguito arrivano i "could do better" (“possono fare meglio”), che comprendono Gucci, Ikea, Kering, Monsoon, Stella McCartney, Tchibo, Valentino, Victoria's Secret e Yves Saint Laurent.

La terza categoria è quella dei "trailing behind" (“quelli che restano indietro”), che nei propri ranghi conta i marchi Abercrombie & Fitch, Adidas, American Eagle, Arcadia, Gap, Burberry, Calvin Klein, Chanel, Decathlon, Desigual, Hermès, Hugo Boss e Levi's Strauss, ma anche Louis Vuitton, Mango, Primark, Puma, PVH, Ralph Lauren, Timberland, Tommy Hilfiger, Topshop, Uniqlo, VF Corp e Zalando.
La coda della classifica è invece definita "poor effort" (“pochi sforzi”), con nomi come Amazon Clothing, Anthropologie, Armani, Boohoo, Coach, Debenhams, Dior, Dolce & Gabbana, Fendi, Forever 21 e J. Crew. Senza dimenticare Marc Jacobs, Michael Kors, Miu Miu, Monoprix, Nike, Prada, Versace o Walmart.
“C’è un chiaro e netto divario tra i marchi statunitensi ed europei”, nota la CMF. “Nessuna azienda americana si è classificata ai vertici della categoria frontrunner, dominata da aziende europee, mentre una sola azienda statunitense (Victoria's Secret) è riuscita a classificarsi nella seconda categoria could do better”.

Un ritardo che l’organismo considera ancor più dannoso se si considera che, secondo il sondaggio internazionale condotto lo scorso gennaio dalla CMF con Clean Clothes Campaign, il 72% dei consumatori ritiene che i marchi dovrebbero essere considerati responsabili di cosa succede durante la realizzazione dei loro prodotti. E il 56% si dice disposto a rinunciare ad acquistare beni di un marchio associato all'inquinamento industriale.
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