Sourcing: vari grandi marchi accusati di pratiche abusive in Bangladesh
Zara, Next, H&M, Primark... Vari tra i più grandi marchi internazionali di abbigliamento sono accusati di pratiche sleali nei confronti dei loro fornitori in Bangladesh. Si tratterebbe ad esempio di annullamenti di ordini, mancati pagamenti o pagamenti che avvengono in ritardo, secondo uno studio pubblicato mercoledì scorso.

Questo studio dell'associazione Transform Trade, condotto insieme all'Università di Aberdeen e al Center for Global Development, ha analizzato 1.000 fabbriche o produttori di abbigliamento del Bangladesh, rilevandovi pratiche “sleali” iniziate durante la pandemia di Covid-19, ma proseguite anche successivamente.
I produttori intervistati “hanno riferito che marchi e distributori avevano annullato ordini, rifiutato di pagare o chiesto sconti per ordini già in produzione o spediti”, nonostante l'aumento dei costi di produzione dalla riapertura dell'economia dopo i lockdown e l'aumento sconsiderato dell'inflazione.
Tra le grandi aziende che producono in Bangladesh, Inditex (società madre di Zara), Next, Primark o H&M hanno tutti cancellato circa il 30% dei loro ordini e chiesto anche sconti o dilazioni nei pagamenti. Lo hanno fatto anche Gap, Walmart e C&A, ma in misura inferiore, tra molti altri esempi.
Vicepresidente dell’associazione dei produttori d’abbigliamento locali del Bangladesh (la BGMEA), Miran Ali, ha parlato a FashionNetwork.com del problema di queste cancellazioni, che spesso sono dannose per i produttori locali, oltre a lasciare tracce nei rapporti commerciali tra l'industria bangladese e i marchi internazionali.
“A marzo 2020 abbiamo assistito alla chiusura totale della nostra industria”, ci ha raccontato lo scorso ottobre il rappresentante del settore. “Quasi tutti i marchi ci hanno ritirato la garanzia di ordini futuri. Alcuni gruppi come H&M o ID Kids (Okaïdi) hanno comunque continuato a prendere ordini nonostante i loro negozi fossero chiusi. Questa è quella che io chiamo una vera partnership e, come fornitori, lo ricorderemo sempre. Ma la maggior parte delle aziende ha detto 'cancelliamo tutto' o 'torneremo da voi'”.
Il rapporto di Transform Trade appena pubblicato sottolinea che “tali pratiche sleali si ripercuotono sulle modalità occupazionali dei fornitori, con conseguenti... perdite di posti di lavoro e cali dei salari”.
“In particolare, una fabbrica su cinque ha indicato di avere difficoltà a pagare il salario minimo in Bangladesh” dalla fine dei confinamenti, aggiunge il report, chiedendo la creazione di un'autorità di regolamentazione per il settore dell'abbigliamento nei Paesi sviluppati per porre fine a queste pratiche di acquisto abusive.

Ricordiamo che il governo del Bangladesh nel 2020 aveva per la prima volta preso accordi speciali nei confronti delle aziende di tessuti, garantendo per tre mesi il pagamento dei lavoratori tessili del Paese. Il settore dell'abbigliamento è un pilastro dell'occupazione locale e delle esportazioni del Bangladesh: il comparto rappresenta infatti circa il 10% del prodotto interno lordo e dà lavoro a 4,4 milioni di persone attraverso più di 4.000 fabbriche.
Sempre sul versante delle cifre, le esportazioni di abbigliamento del Bangladesh hanno raggiunto i 35,8 miliardi di dollari nel 2021 (33,05 miliardi di euro). Un aumento del 30% rispetto a un anno finanziario 2020 fortemente influenzato da lockdown e cancellazioni di ordini. Ma anche un aumento dell'8,2% rispetto al 2019, che segna il tanto atteso ritorno del settore ai livelli pre-crisi. Il settore locale conta su ulteriori progressi nell'esercizio 2022, i cui dati saranno presto pubblicati.
La pubblicazione di questo rapporto, che evidenzia il divario tra i valori sociali che le aziende mostrano e la realtà delle loro politiche di acquisto, arriva in un momento in cui l'industria dell'abbigliamento è regolarmente accusata di pratiche salariali o di lavoro abusive, anche in Paesi sviluppati come il Regno Unito.
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