Sotto pressione, Amazon rivela l'elenco dei fornitori dei propri marchi
Dopo la polemica delle ultime settimane relativa alla presenza di prodotti provenienti da fabbriche "vietate" nelle sue pagine, lo scorso 15 novembre il gigante statunitense delle vendite online Amazon ha reso pubblico per la prima volta l'elenco delle aziende che producono per i suoi brand. Un approccio lodevole, ma ancora troppo poco dettagliato, secondo le ONG.

La pubblicazione di questo elenco non è di poca importanza, in quanto Amazon è diventato un marchio a pieno titolo con, solamente nel settore della moda, oltre un centinaio di marchi lanciati in soli cinque anni (leggere l’articolo di Fashion Network sull’argomento). L'inversione di tendenza è ancora più inaspettata se si ricorda che il vicepresidente di Amazon Fashion Europe, John Boumphrey, spiegava ancora il 24 ottobre scorso a FashionNetwork.com di non poter divulgare le zone di produzione dei prodotti di moda della società. E questo anche se i prodotti esposti a pochi metri di distanza da lui esibivano delle etichette con sopra scritto "made in".
Meno di un mese dopo, ecco apparire un documento che fornisce nomi, indirizzi, città, regioni e Paesi di diversi fornitori, di tutti i settori. Vi sono indicate 505 aziende cinesi e 29 società di Taiwan, 168 compagnie indiane, 23 del Bangladesh e 6 del Pakistan. Alle quali si aggiungono nzioni come il Vietnam (55 fornitori), il Giappone (31) lo Sri Lanka (29), l'Indonesia (19), la Thailandia (14), la Malesia (13), le Filippine (13), la Corea del Sud (12), la Cambogia (7) e il Madagascar (4).
La lista comprende inoltre 102 aziende statunitensi e 12 fabbricanti messicani. Per il Vecchio Continente sono citati Regno Unito (con 10 aziende), Polonia (9), Italia (4) e Turchia (11). In Francia sono 2, entrambe a capitali stranieri, e fra queste figura l’italiana Sofidel, installata a Frouard, vicino a Nancy.
“La decisione di Amazon, il più grande rivenditore online del mondo invia un messaggio inequivocabile e privo di ambiguità: la trasparenza è di importanza cruciale ed è qui per restare e crescere”, si è rallegrata il 20 novembre Aruna Kashyap, Senior Advisor per i diritti delle donne all'interno della ONG Human Rights Watch. “I marchi che non divulgano pubblicamente le loro catene di approvvigionamento potrebbero non sapere dove sono realizzati i loro prodotti, il che rende più difficile determinare se agiscono in modo responsabile, e quando la divulgazione non è facilmente accessibile, è difficile per i lavoratori denunciare gli abusi sul lavoro”.

Tuttavia, l'organismo segnala una serie di critiche alla lista fornita da Amazon. La prima, la più evidente, è l’assenza dell’indicazione dell’ambito produttivo, rendendo impossibile distinguere un produttore tessile da uno specialista di cosmetici o una fabbrica di elettronica. Inoltre, HRW osserva che l'elenco è sì presente sul portale aziendale di Amazon, ma rimane difficile da trovare per gli utenti in cerca di informazioni. Inoltre, la pubblicazione non è stata oggetto di alcuna conferenza o comunicato stampa.
Per comprendere questo silenzio, bisogna inserire questa pubblicazione nel contesto della polemica scatenata lo scorso 23 ottobre dalla sezione investigativa del Wall Street Journal ("Amazon sells clothes from factories other retailers blacklist", ovvero "Amazon vende vestiti di produttori inseriti nella lista nera di altri marchi"). Il quotidiano affermava che il marketplace Amazon offre in vendita prodotti d’abbigliamento di aziende che figurano nella lista nera di fabbriche del Bangladesh compilata dopo il dramma del Rana Plaza che aveva causato più di mille morti, e che i grandi marchi internazionali si sono impegnati a bandire dalle loro catene di fornitura.
Mentre Amazon afferma di combattere quotidianamente contro la vendita di prodotti contraffatti, si comprende come risulterebbe ancora più difficile per il portale identificare capi provenienti da queste fabbriche vietate. Anche se Amazon si è impegnato a rifiutare questi prodotti se vengono identificati come tali.

Benché il Wall Street Journal abbia indicato di non essere in grado di collegare i prodotti dei marchi di Amazon alle fabbriche presenti sulla lista nera, pur ricordando che un terzo dei brand di Amazon sono etichette di abbigliamento, la polemica ha avuto vasta eco al di là dell’Atlantico. Questo fatto ha portato il gigante delle vendite online a fare un primo passo verso la trasparenza. E forse a recuperare il ritardo che ha accumulato su questo terreno rispetto ad altre marche di abbigliamento, delle quali, nonostante le sue 103 label che vendono prodotti fashion, sostiene di non voler essere un concorrente. Comunque sia, Nike ha deciso di interrompere la collaborazione con il portale, in quanto i suoi prodotti faticavano a distinguersi in mezzo a tante altre etichette.
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