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Versione italiana di
Gianluca Bolelli
Pubblicato il
24 apr 2023
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Rana Plaza: dieci anni dopo, l'industria della moda ha imparato la lezione del dramma?

Versione italiana di
Gianluca Bolelli
Pubblicato il
24 apr 2023

Si tratta della peggiore catastrofe che l'industria della moda abbia mai conosciuto. Il 24 aprile 2013 il mondo ha scoperto le immagini di un edificio crollato alla periferia della capitale del Bangladesh, il cui crollo si è portato via 1.138 lavoratori tessili, l'80% dei quali erano donne, e ne ha feriti più di 2.500. Vicino ai corpi sepolti e poi estratti dalle macerie verranno portate alla luce le etichette dei principali marchi di moda dell’Occidente, da Prada e Versace a Primark e Walmart, passando per H&M, C&A o Mango. Una strage che, secondo brand e rappresentanti del settore, doveva portare a mettere in discussione l'industria della moda sulle condizioni di lavoro delle sue maestranze. Ma cosa ne è stato realmente dieci anni dopo?

Un'operaia tessile salvata dal crollo il 24 aprile 2013 - Shutterstock


Il Rana Plaza prendeva il nome dal suo proprietario, Sohel Rana, proveniente dalla giovane guardia della Awami League, che è alla guida del Paese dal 2009. Il sito è stato costruito nel 2006 nella parte nord-orientale di Dacca. Era stato progettato per ospitare uffici. Tuttavia, tra una banca, negozi e abitazioni, alla fine vi si insedieranno ai piani superiori diverse fabbriche di abbigliamento, in cui arrivano ad accumularsi fino a 5.000 lavoratori.

I servizi di sicurezza della prefettura si sono subito preoccupati della solidità di questo edificio, i cui ultimi quattro piani sono stati costruiti senza permesso, grazie a vari agganci politici. Quando le vibrazioni delle macchine tessili iniziano a crepare i muri, i negozi e la banca se ne vanno.

Il giorno prima della tragedia, un ingegnere inviato sul posto ordina l'evacuazione dell’edificio. Di fronte al palazzo, Sohel Rana spiega che si trattava solo di danni limitati agli intonaci, davanti a vari giornalisti che documentavano i danni.

Il processo a Sohel Rana dimostrerà che il proprietario, il giorno della tragedia, avrebbe fatto ricorso ad alcuni scagnozzi per costringere gli operai tessili a tornare al lavoro. L'attivazione di un generatore situato ai piani superiori causò delle scosse di troppo, che porteranno alla morte o al ferimento di chi si trovava in quel momento nell’edificio. Occorsero diverse settimane a migliaia di volontari per scavare tra le macerie. Non tutti i dispersi sono stati trovati.

Reazioni di Stati, brand e ONG

Da Washington a Bruxelles, le reazioni si sono moltiplicate non appena è stato annunciato il disastro. L'allora vice primo ministro britannico Nick Clegg sottolineò il peso che può avere un cliente nella scelta di un marchio di abbigliamento.

Negli Stati Uniti l'amministrazione Obama esercitò pressioni sul governo del Bangladesh, arrivando a inserire nella legge “Trade Facilitation and Trade Enforcement” del 2015 un provvedimento che prevedeva l'eliminazione dei vantaggi doganali del Bangladesh se la sicurezza dei lavoratori non fosse stata migliorata. Il commissario europeo per il commercio Karel De Gucht lanciò minacce simili contro un Paese che era, e rimane, il terzo fornitore di abbigliamento degli Stati Uniti e il secondo fornitore dell'Unione Europea.

Migliaia di volontari hanno aiutato a cercare le vittime - Shutterstock


“Devastati”, “scioccati”, “preoccupati”, “rattristati”... Di fronte alle richieste di chiarimenti delle ONG, ma anche dei consumatori attraverso i social network, da parte loro i brand hanno rapidamente pubblicato dei comunicati stampa, spesso molto simili tra loro. H&M, Inditex, Gap, Primark, Benetton, VF Corp, PVH Corp, C&A, Esprit, Marks & Spencer e molti altri hanno lanciato messaggi accomunati dall'impegno nel lavorare per migliorare le condizioni di sicurezza dei lavoratori.
 
A tale proposito, il gruppo spagnolo Inditex ha tenuto a precisare direttamente a FashionNetwork.com di non aver intrapreso rapporti commerciali con le fabbriche situate nell’edificio del Rana Plaza, sottolineando di non essere presente al suo interno al momento del fatto. Il colosso iberico aggiunge di essersi fin da subito impegnato per offrire supporto alle vittime e ai famigliari della tragedia del Rana Plaza, partecipando attivamente alle iniziative avviate per limitare le conseguenze del crollo e fornendo un sostegno economico. Difatti, a seguito di specifiche valutazioni, due anni prima Inditex aveva escluso la possibilità di collaborare con questi stabilimenti. Inoltre ha sostenuto e partecipato attivamente fin dall'inizio alla stesura dell'Accordo sulla sicurezza antincendio e degli edifici nell'industria dell'abbigliamento del Bangladesh, formulato nel maggio 2013 (a cui accenniamo più in basso, ndr.).
 
Tuttavia, molti altri gruppi, come Walmart, Benetton o Mango, hanno contestualmente dato la colpa ai propri fornitori, sostenendo di non essere stati informati delle condizioni di produzione locali o addirittura di non essere a conoscenza della produzione in quel sito.

Un rifiuto di responsabilità che è stato rapidamente attaccato da tutte le ONG. “I lavoratori dell'industria dell'abbigliamento in Bangladesh lavorano da anni in condizioni disumane, e questo è stato ignorato dai brand, che hanno utilizzato tali fabbriche per i loro prodotti a buon mercato”, ha dichiarato pochi giorni dopo la co-fondatrice di Clean Clothes Campaign, Ineke Zeldenrust. “Questi marchi hanno il potere di cambiare la situazione, ma hanno continuato a cercare prezzi sempre più bassi, lasciando i lavoratori in condizioni insicure, pericolose e inaccettabili”.

Un “dramma nazionale” per il Bangladesh

“Per noi è stato soprattutto un vero e proprio dramma nazionale, che ha fatto capire a tutti che le cose dovevano cambiare”, ricorda Shafiul Islam, allora presidente della BGMEA, la federazione del tessile-abbigliamento del Bangladesh. Un anno dopo la tragedia, circa 200 laboratori tessili sono stati chiusi per motivi di sicurezza in Bangladesh, un Paese in cui l'80% delle esportazioni è generato da tessuti e abbigliamento.

Le macchine per la produzione tessile si trovavano ai piani superiori dell'edificio, per la quale non c'era il permesso di costruzione - Shutterstock


Circa 200 marchi una volta avevano delle subforniture in atto con il Rana Plaza, secondo l'ONG Clean Clothes Campaign. Tali brand sono stati inclusi nell'istituzione di un fondo di risarcimento per le vittime. Ci vorranno tre anni, e pressioni pubbliche su alcuni di questi marchi, per raccogliere i 30 milioni di dollari necessari. Pressioni esercitate da ONG tra le quali emerse, nel primo anniversario della tragedia, il Fashion Revolution Day, evento internazionale oggi diventato la Fashion Revolution Week, con la sua campagna “Who made my clothes?”.

“Il Rana Plaza è stato uno shock, ma non una sorpresa”, ricorda Nayla Ajaltouni, delegata generale del collettivo di associazioni e sindacati Ethics on Label, la quale ricorda che le organizzazioni non governative già prima della tragedia avevano quantificato in 700 il numero di lavoratori tessili morti in Bangladesh in incendi o crolli di fabbriche. “Le aziende di abbigliamento ci hanno sempre chiesto di fidarci di loro, di lasciarle agire (…) attraverso semplici codici di condotta e audit sociali. Una posizione ideologica che il Rana Plaza è arrivato a capovolgere”.

L'industria del Bangladesh e l'ipocrisia dei marchi

Oggi un deputato del Bangladesh per la decima circoscrizione di Dacca, Shafiul Islam, ricorda che sin dall'estate del 2013 i marchi occidentali hanno mostrato comportamenti contraddittori. Hanno tenuto a comunicare sui miglioramenti richiesti ai loro fornitori del Bangladesh, ma allo stesso tempo, i rappresentanti commerciali di quegli stessi marchi hanno continuato a esercitare pressioni sui prezzi degli ordini. Minacciando persino di trasferirsi, di fronte agli aumenti salariali minimi introdotti in Bangladesh a seguito della tragedia.

Il deputato Shafiul Islam, presidente della BGMEA nel 2013, e il suo successore Faruk Hassan, fotografati a febbraio a Parigi - MG/FNW


“Tutti nel settore riconoscono il grande lavoro di trasformazione svolto dalla filiera in dieci anni, ma appena si parla di soldi si ricade in brutali questioni di competitività”, riassume l'ex presidente della BGMEA. Il quale deplora le commesse in graduale partenza verso nazioni più economiche, i cui impegni socio-ambientali sono limitati o addirittura inesistenti.

Una situazione che non era ancora cambiata nel 2020, secondo Rubana Huq, leader del BGMEA alla vigilia della crisi sanitaria. “È diventata peggiore!”, ci ha spiegato anche questa presidente della filiera locale. Per lei, i marchi hanno continuato a sottrarsi alle proprie responsabilità nei confronti dei fornitori investendo su loro richiesta. “I miglioramenti non possono essere solo punitivi, devono essere proattivi, il che significa che gli imprenditori si impegnano presso coloro che compiono lo sforzo”.

E la crisi sanitaria non ha fatto altro che accentuare questa constatazione: nel 2020 il Bangladesh ha visto grandi aziende tessili annullare ordini già prodotti, o rinegoziare unilateralmente il prezzo di questi. “Quasi tutti i marchi ci hanno ritirato l'assicurazione di presentare ordini futuri”, ci ha detto nel novembre 2022 Miran Ali, vicepresidente della BGMEA. Che tuttavia accoglie con favore gli ordini mantenuti dal colosso svedese H&M e dalla francese ID Kids, nonostante i negozi chiusi. “Questo è ciò che io chiamo una vera partnership e come fornitori ce ne ricorderemo sempre”.

La filiera si è davvero evoluta “in meglio”?

A dieci anni dalla tragedia, si pone quindi la domanda su quali cambiamenti positivi siano emersi dalle macerie del Rana Plaza. Uno dei più evidenti è il cosiddetto “Accord on Fire and Building Safety in Bangladesh” (“Accordo sulla sicurezza antincendio e degli edifici in Bangladesh”, ndr.), che riunisce 200 marchi attorno a industriali, funzionari eletti e sindacati del Bangladesh per garantire uno standard di controllo della sicurezza dei siti produttivi. Un progetto che, va ricordato, era già sostenuto dalle ONG prima della tragedia. Ma prima del Rana Plaza, nessun grande marchio aveva accettato di impegnarsi in un contratto ritenuto troppo restrittivo, ricorda Nayla Ajaltouni.

L'accordo è un'iniziativa guidata principalmente da appaltatori europei, dopo che un simile approccio a dominante americana, chiamato “Alliance for Bangladesh Worker Safety”, è stato sciolto nel 2018. L'accordo sulla sicurezza degli incendi e degli edifici in Bangladesh, continua ad essere attivo… e ha recentemente iniziato ad internazionalizzarsi venendo adottato in Pakistan. Senza però suscitare lo stesso entusiasmo del fratello maggiore bengalese: solo una quarantina di brand hanno siglato l'accordo pachistano.

Una commemorazione della tragedia nel 2021 - Shutterstock


In Europa, il Rana Plaza ha permesso di far emergere un quadro futuro sulla “ragionevole vigilanza” (due diligence) delle imprese. Un approccio ispirato al “dovere di vigilanza” delle aziende precedentemente adottato in Francia. Tali meccanismi dovrebbero teoricamente impedire in futuro alle persone che finanziano un’azienda di scaricare i propri fornitori in caso insorgano problemi socio-ambientali. Il Parlamento Europeo deve votare nei prossimi giorni una direttiva che stabilisca il quadro della futura norma comunitaria.

Sul versante dei marchi, il Rana Plaza avrà permesso di farsi sentire a una generazione di professionisti e dirigenti più sensibili alle tematiche ambientali ma anche sociali. Nel 2013, i brand stavano già comunicando ampiamente i loro sforzi “green”. Nel 2023 non dimenticano in parallelo di fare menzione delle loro iniziative sul piano umano.

Tuttavia, molte ONG denunciano apertamente l'accelerazione del “social washing” (sfruttamento da parte del marketing di misure inesistenti o simboliche a livello umano) proveniente da marchi di abbigliamento che parlano molto, ma fanno poco. “Le cattive pratiche stanno tornando, come al solito”, si lamenta Nayla Ajaltouni, “con, nella migliore delle ipotesi, imbellettamenti di facciata per camuffare questo rifiuto di volersi davvero evolvere”.
 
Fast-fashion, Shein e uiguri

Per scoprire quali tracce ha lasciato il Rana Plaza nella coscienza sociale del settore, dobbiamo guardare anche agli ultimi sviluppi e agli scandali che hanno colpito l'industria della moda. E in particolare l'accelerazione del fast-fashion, che in dieci anni è diventato l'incarnazione dell’eccesso di consumi nell’abbigliamento. La sua logica di rapida rotazione delle collezioni a basso costo implica continuare a trattare verso il basso i prezzi dai fornitori.
 
Come accennato di recente in occasione di un vertice dell’OCSE a Parigi, questa ricerca del prezzo sempre più basso porta alcuni committenti a rivolgersi a settori sempre meno esigenti. Addirittura mantenendo ordini in Paesi in crisi, come la Birmania, dove i lavoratori sindacalizzati sono diventati bersagli privilegiati della giunta militare che sta dietro il recente colpo di stato.

Fabbriche Shein a Canton - Public Eye


Questa logica della corsa al prezzo ha finito per far nascere una realtà come Shein, brand cinese su cui l'ONG svizzera Public Eye ha fatto un parallelo con il Rana Plaza: un reportage del 2021 ha esplorato la rete dei piccoli laboratori del “villaggio di Nancun” (nel distretto di Guangzhou). Anche qui macchine e operai sono collocati in edifici inadatti all'industria tessile, e le poche uscite di sicurezza sono bloccate da sacchi con il logo del marchio.

La buona coscienza sociale del comparto della moda è minata anche dal dramma degli uiguri. “Lavoro forzato”, secondo ONU e ONG, opera di “integrazione attraverso il lavoro”, secondo Pechino, l'attività della minoranza musulmana cinese è fondamentale per la produzione di cotone nello Xinjiang, provincia che produce il 20% del cotone mondiale. E questa è solo la parte visibile del problema: gli uiguri vengono inviati attraverso la Cina in fabbriche tessili trasformate in centri chiusi, il che rende difficile tracciare la reale portata dello sfruttamento di questa minoranza nella produzione cinese di tessile-abbigliamento.

Mentre Washington e molti politici occidentali parlano apertamente di “genocidio”, l'industria della moda non è riuscita a fare fronte comune su questo argomento, simile a quello che aveva, in modo più improvviso e spettacolare, provocato il Rana Plaza.
 
Una stele in memoria delle vittime
 
Dopo la richiesta iniziale di pena di morte per omicidio, alla fine Sohel Rana, proprietario del Rana Plaza, è stato condannato a tre anni di carcere per corruzione nel 2017. Ma grazie agli agganci politici dell'imputato, c’era stata una lunga sospensione del processo. Che finalmente è ripreso nel 2022, dopo una pausa di cinque anni.

Il sito su cui sorgeva il Rana Plaza non è mai stato completamente ripulito o ricostruito. Su quello che è diventato un luogo di meditazione per i bengalesi è stata installata una stele in memoria delle vittime. “Siamo impegnati a sostenere la loro dignità garantendo un equo compenso, e condizioni di lavoro sicure ai lavoratori dell'industria dell'abbigliamento”, recita il monumento, in bengalese e in inglese.

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