Ralph Lauren e H&M si concentrano sullo sviluppo durevole
Il convegno “Economist Sustainability Summit” organizzato a Londra è stata occasione di incontro per numerosi operatori del settore, che hanno testimoniato il loro impegno a favore degli obiettivi dello sviluppo durevole. Non un affare da poco, quindi, di fronte a un’opinione pubblica che, pur non essendo ostile, resta alquanto scettica riguardo al fatto che un settore conosciuto per il suo consumismo sfrenato possa un giorno ridurre il proprio impatto ambientale.
Ma Halide Alagöz, Responsabile dello sviluppo durevole in Ralph Lauren Corp, Pernilla Halldin, sua omologa da H&M, e Cyndi Rhoades, fondatrice e CEO di Worn Again Technologies, specialista nel riciclaggio dei polimeri, hanno dato l’esempio raccontando iniziative concrete. Secondo loro, c’è sicuramente molto lavoro da fare, ma l’obiettivo, giudicato un tempo impossibile, di un’economia circolare al 100% è raggiungibile.
Halide Alagöz ha sottolineato che lo sviluppo durevole non è necessariamente in contrapposizione con una buona redditività e che il legame tra lusso e investimenti a lungo termine è già intrinsecamente connesso alla sostenibilità. “Il nostro brand è senza tempo. Creiamo prodotti che la gente ama e porta per tutta la vita, prima di passarli pieni di storia alla generazione successiva. Il blazer che indosso è stato prodotto nel 1988 e non è mai passato di moda. Non crediamo che business e sostenibilità debbano necessariamente escludersi tra loro”.
“Abbiamo lavorato molto sulla domanda e sull’offerta, per evitare di produrre in eccesso”, ha spiegato Halide Alagöz. “Nel corso degli ultimi due anni siamo riusciti ad aumentare il nostro giro d’affari e il nostro utile netto, pur producendo molti meno articoli che in passato”. Si tratta di un grande passo avanti, oltre che di un modo per l’azienda di evitare scandali come quello attraversato lo scorso anno da Burberry, quando si è saputo che grandi quantità di prodotti non venduti del brand britannico venivano inceneriti e non riciclati.
È chiaro che la moda alto di gamma, che ha fatto nascere il settore della rivendita dei prodotti di moda, si presta bene alle iniziative di sviluppo durevole; non è quindi una sorpresa che aziende come Ralph Lauren facciano grandi progressi in quest’ambito.
Dal canto suo, H&M, che punta a consumatori con una capacità di spesa inferiore, potrebbe sembrare bloccato nella spirale di consumo e distribuzione del “fast fashion”, il che pone una sfida molto più importante. Ma la società ha ambizioni audaci: Pernilla Halldin ha infatti dichiarato che l’obiettivo del gruppo è di passare a un modello “100% circolare”. H&M vuole diventare “100% rinnovabile e sostenibile”, ma anche “100% giusto ed equo”, e guidare il cambiamento. “Possiamo sfruttare le nostre dimensioni per aiutare il settore a trasformarsi”.
È un’utopia? Apparentemente no. Cyndi Rhoades, che guida Worn Again Technologies, insiste sul fatto che H&M abbia adottato un approccio molto proattivo sulla questione e che le due società sono diventate partner per avanzare insieme verso l’obiettivo di un’economia circolare.
Nell’approccio di H&M, l’accento è posto sul consumatore. La società dispone di contenitori per il riciclo vicino alle casse dei negozi. Pernilla Halldin ha spiegato che “Nelle nostre emissioni di CO2, l’impatto dei clienti è del 20%. La nostra clientela si sta impegnando sempre di più, e questo ci motiva”. Oltre al riciclo, “spingiamo i clienti a lavare meno, stirare meno e asciugare meno i loro abiti”, anche se la manager ammette che saranno le azioni del gruppo H&M stesso a fare la differenza: “Esaminiamo ogni step della nostra attività per capire come renderlo circolare, dallo stile alla produzione, passando per il nostro programma di recupero. Evidentemente, c’è ancora molto lavoro da fare, ma disponiamo di molte leve d’azione”.
Secondo Pernilla Halldin, il problema principale è quello delle materie prime: “La produzione delle materie prime è di gran lunga la causa più importante delle emissioni di CO2 e del consumo di acqua”. Ed è qui che subentra Worn Again Technologies.
Cyndi Rhoades ha dichiarato che circa 50 milioni di tonnellate di tessuti giunti alla fine del loro ciclo di vita vengono buttati ogni anno. Meno dell’1% è riutilizzato per produrre nuovi tessuti, principalmente a causa dello stato attuale delle tecnologie, della loro capacità, dei prezzi e delle condizioni economiche. Secondo la manager, aziende come la sua diventeranno tra qualche anno una realtà percorribile. Il settore innovativo delle fibre durevoli sta conoscendo uno sviluppo importante in questo momento, “ma per risolvere il problema attuale, bisogna riciclare sempre di più, da qui la necessità di innovare in materia di processi di recupero”.
Questa innovazione di processo si accompagnerà, sempre secondo Cyndi Rhoades, a una “innovazione chimica”. “Il poliestere e il cotone sono le fibre più utilizzate oggi (l’80% dei nostri tessuti si compongono di queste materie prime). Bisogna creare delle nuove tecnologie o dei nuovi processi che permettano di recuperarli e produrre una materia prima equivalente allo stesso prezzo, che vada a reintegrare la catena di approvvigionamento. Questo è ciò che viene definito il tessile circolare”.
Ma questo bel programma potrà essere applicato rapidamente? Non proprio. Cyndi Rhoades ammette che il calendario stesso è una sfida, perché non è così semplice “far passare la nuova tecnologia dalle dimensioni di un laboratorio a quelle di una fabbrica”. Ci vorranno almeno 10 anni: “Siamo all’ottavo anno, ce ne restano ancora due prima che tutto ciò diventi una soluzione flessibile”.
“Quello che le persone devono capire è che il processo è in corso, spinto da una vera volontà. Le grandi aziende si domandano da dove verranno le loro materie prime in futuro, se costeranno più care e se sarà più difficile accedervi. Creare materie prime riciclate allo stesso prezzo, perché no?”, ha concluso l’esperta.
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