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Versione italiana di
Gianluca Bolelli
Pubblicato il
4 gen 2022
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RCEP: cosa cambierà l'accordo di libero scambio in Asia-Pacifico?

Versione italiana di
Gianluca Bolelli
Pubblicato il
4 gen 2022

Il 1° gennaio è entrato in vigore il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP, o partenariato economico globale regionale), che ha creato la più grande area di libero scambio al mondo. Riunendo quindici nazioni, da Cina e Giappone al nord, ad Australia e Nuova Zelanda al sud, l'accordo abolisce i dazi doganali sul 91% degli articoli scambiati. Se alcuni imprenditori committenti occidentali sperano che il dispositivo riduca i costi di produzione, il calendario e varie disposizioni specifiche previste nell'accordo potrebbero però decidere diversamente.

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Oltre a Cina, Australia, Giappone, Corea del Sud e Nuova Zelanda, l'accordo è firmato dai dieci paesi dell'ASEAN (l’associazione tra le nazioni del sud-est asiatico), ovvero Vietnam, Cambogia, Indonesia, Laos, Malesia, Birmania, Filippine, Thailandia, Singapore e Brunei.
 
Un'area che, secondo i dati delle Nazioni Unite, nel 2019 ha rappresentato non meno della metà delle esportazioni mondiali di tessile-abbigliamento, con 374 miliardi di dollari di merci. Nello stesso periodo, la zona RCEP ha importato 139 miliardi di dollari in tessuti e abbigliamento, ovvero il 20% delle importazioni mondiali del settore.

Molti Paesi della zona vedono la loro produzione di tessile-abbigliamento dipendere da materie prime, fili, tessuti o pelli prodotti dai loro vicini. Prima della crisi, ben il 72,8% delle importazioni tessili di questi stati proveniva da altri Paesi della zona. E il 40% delle esportazioni tessili della regione era destinato alla zona dei quindici. Conseguenza: il RCEP apre potenzialmente la strada ad una contrazione dei costi di produzione per i fabbricanti, dovuta all'eliminazione dei dazi doganali.
 
Diverse associazioni industriali locali hanno anche ricordato il fatto che i committenti occidentali stanno già utilizzando questo argomento per negoziare prezzi più bassi. Ma l'annunciata riduzione delle tasse non è meno in contrasto con la realtà del momento: i risparmi consentiti dai dazi doganali fanno da contraltare all'esplosione dei costi di trasporto, oltre che del prezzo dell'energia nei siti industriali.
 
Inoltre, ogni Paese RCEP mantiene il controllo del perimetro e della tempistica della propria detassazione. Un calendario che può essere spalmato su 20 anni nel caso del Giappone e quasi 35 anni in quello della Corea del Sud.
 
In più, il libero scambio non sarà uniforme nell'area, come possono esserlo gli accordi incentrati sugli Stati Uniti o sull'Unione Europea: ogni Paese può decidere uno specifico piano di riduzione delle tasse per ognuna delle nazioni partner. Una libertà volta in particolare a preparare alcune delle industrie locali alla crescente concorrenza implicita nell'accordo di libero scambio.
 
Un altro aspetto fondamentale del RCEP è la sua applicazione della regola di origine, che è poco vincolante. I produttori potranno portare i loro filati e tessuti dappertutto sul pianeta, ma i prodotti finiti che otterranno da essi potranno comunque beneficiare della detassazione sulle esportazioni verso i Paesi limitrofi.
 
Una valutazione dell'Organizzazione Mondiale del Commercio datata 2017 stimava che ciò ridurrebbe gradualmente da circa il 30% a circa il 20% la percentuale delle importazioni tessili dell'area RCEP da Paesi al di fuori dell'accordo. Inoltre, l'accordo potrebbe portare la zona a ridurre le proprie importazioni di abbigliamento da nazioni che si trovano al di fuori del RCEP dal 25% al ​​17%.
 
Vittoria cinese?
 
Il RCEP potrebbe quindi giocare contro alcune produzioni americane o europee destinate all'Asia-Pacifico, nei materiali come nei prodotti finiti. Al contrario, l'accordo molto probabilmente consoliderà in modo ulteriore la posizione dominante dell'Asia nel sourcing globale di tessuti e abbigliamento. Prima della crisi sanitaria, i quindici Paesi da soli rappresentavano il 59,2% delle importazioni di tessile-abbigliamento degli Stati Uniti nel 2019, secondo i dati di Comtrade delle Nazioni Unite. Nello stesso periodo hanno rappresentato il 28,1% delle importazioni europee.
 
A tutto questo si aggiunge la questione politica. In preparazione dall'inizio degli anni 2000, l'accordo RCEP costituisce una vittoria soprattutto per la Cina. Mentre l'amministrazione Trump aveva fragorosamente seppellito il progetto di libero scambio transatlantico promosso dall'amministrazione Obama, l'Impero di Mezzo aveva chiaramente indicato di vedere nella vicenda un'opportunità per consolidare il proprio dominio sull'area.
 
Un progetto separato di libero scambio tra Cina, Corea del Sud e Giappone è quindi ancora in fase di negoziazione. Molti Paesi fornitori degli Stati Uniti sperano ora che il RCEP faccia pressione su Washington affinché si unisca ai negoziati per il CPTPP (Comprehensive and Progressive Agreement of the Trans-Pacific Partnership, ovvero accordo globale e progressivo del partenariato transpacifico). Progetto che già riunisce Canada, Messico, Perù, Cile, Australia, Giappone e Vietnam e che ha tra i suoi obiettivi il rafforzare la posizione dei firmatari nei confronti della potenza industriale cinese.

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