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Versione italiana di
Gianluca Bolelli
Pubblicato il
15 set 2021
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Pelle: la lotta per la sostenibilità di una filiera tanto criticata

Versione italiana di
Gianluca Bolelli
Pubblicato il
15 set 2021

Il 13 settembre, il francese Conseil National du Cuir (CNC) ha tenuto la terza edizione del “Sustainable Leather Forum” al Palais Brongniart (II arrondissement di Parigi), per un momento di riflessione sulle buone pratiche nel settore della pelle. Un'edizione dove naturalmente si è parlato della crisi sanitaria, ma soprattutto degli sforzi di trasparenza e sostenibilità intrapresi dal settore della pelle di fronte alle nuove aspettative dei consumatori e alla sempre più rumorosa opposizione al cuoio che pone una sfida probante al settore.

Al centro, Hélène Valade (LVMH). A destra, Franck Boehly (CNC) - MG/FNW


Nel grande auditorium del Palais de la Bourse, sotto quello che un tempo era il cuore dell'economia francese, più di 300 leader e rappresentanti dell'industria della pelle si sono riuniti per la ripresa post-estiva. Un rientro che, per le 21 federazioni e le 12.800 aziende conciarie francesi, è stato soprattutto l'occasione per un punto della situazione dopo mesi di crisi. Crisi nella quale la resistenza del comparto del lusso francese ha permesso di ridurre gli effetti sul settore, non riuscendo però a proteggerlo da tutte le difficoltà.
 
“Se il settore della pelletteria sta andando bene, altri segmenti del nostro comparto continuano a soffrire”, ha ricordato nel preambolo Frank Boehly, rieletto lo scorso giugno alla guida del CNC. “E in particolare le nostre piccole, piccolissime e medie imprese, che rappresentano il 90% delle aziende del nostro settore, considerando tutti i mestieri messi insieme”.

Un punto che ha affrontato anche la viceministra Agnès Pannier-Runacher durante un videomessaggio rivolto ai partecipanti: “So che avete sofferto per il calo di attività dovuto all'emergenza sanitaria”, ha sottolineato, rendendo omaggio alla solidità e alla qualità riconosciute a livello internazionale dell’industria della pelle di Francia. Ma la rappresentante dell'esecutivo ha anche sottolineato che le azioni relative allo sviluppo sostenibile sono state accelerate durante questa crisi. “So di poter contare su di voi per intensificare gli sforzi verso una moda più sostenibile e responsabile”.
 
Incoraggiamenti ben accolti, ma che non rispondono alle crescenti critiche da parte dell'industria. “C'è la volontà dello Stato e del legislatore di legiferare sull'impronta ambientale delle imprese”, spiega Frank Boehly, che segnala delle ridondanze fra testi francesi ed europei. “Questo accumulo di testi e normative crea una certa confusione che preoccupa le aziende, e in particolare le più piccole, che non sono in grado di applicare tali costosissime trasformazioni entro i termini richiesti. Attenzione a non lasciare che l'apparato burocratico faccia sfociare il suo operato nell’imposizione di misure inapplicabili per le imprese e incomprensibili per i consumatori”.
 
Anche il presidente del Comité Stratégique de Filière (CSF) per moda e lusso, Guillaume de Seynes, ha inviato un videomessaggio: “Un primo passo per aprire il nostro forum ad altre professioni”, ha sottolineato Frank Boehly. Per il leader del CSF, “questa crisi ha mostrato la reattività del settore attraverso la mobilitazione di tutti gli attori per la produzione di mascherine”.
 
Guillaume de Seynes ha citato in particolare la relazione del CSF sulla delocalizzazione e la sostenibilità. “L'obiettivo è raddoppiare in cinque anni la quota del Made in France nel consumo di moda e prodotti per la casa”, ha affermato il manager, riferendosi, oltre alla pelle, agli sforzi compiuti su lino e lana, e alle sperimentazioni sull'etichettatura ambientale e la tracciabilità.
 
Uno degli interventi più attesi di questa edizione era quello di Hélène Valade, direttore sviluppo ambientale del gruppo LVMH. La dirigente crede che il settore stia uscendo dalla crisi pandemica in modo diverso rispetto a come vi era entrato. Venendo a presentare le ambizioni nella sostenibilità del colosso guidato da Bernard Arnault, Hélène Valade ha anche svelato le linee di condotta lavorative che il conglomerato francese ha allo studio riguardanti la pelle. “Per il momento non abbiamo idee precostituite. Quello che ci interessa è avere idee basate su dati robusti”, indica la dirigente, che accenna così al desiderio di rinnovare e riquallificare gli allevamenti (dal benessere animale all'impatto ambientale dei medesimi), alle analisi dei metodi di concia, ai risparmi di pelle (taglio ottimizzato e utilizzo degli scarti), per non parlare delle alternative emergenti alla pelle.
 
L'industria della pelle di fronte a ONG e attivisti
 
I detrattori dell'industria della pelle hanno occupato una lunga parte del forum. In particolare attraverso la prospettiva fornita dal sociologo Eric Dénécé. Il direttore del Centre Français de Recherche sur le Renseignement (CF2R-Centro francese di ricerca sull’informazione) ha ricordato che l'attivismo militante per la causa animale è arrivato davvero in Francia solo all'inizio degli anni 2000, mentre è molto più antico, e talvolta violento, oltremanica.

CNC


"Il movimento vegano col quale vi dovete confrontare è solo un piccolo iceberg che nasconde un fenomeno molto più ampio”. Oltre a ricordare come sia legittimo esprimere le proprie opinioni, lo studioso punta il dito verso la minaccia di un “tunnel della radicalizzazione”, in cui si susseguono ideologia, strutturazione, militanza, attivismo e infine terrorismo. “Una tappa finale dalla quale fortunatamente in Francia siamo ancora lontani”, rimarca Dénécé, ricordando nondimeno la preoccupazione di Greenpeace di fronte ad alcune tensioni esistenti tra le sue fila.
 
“Possiamo criticare i metodi, ma non possiamo negare che ciò ha permesso di lanciare l'allarme e di mobilitare gli attori sulla questione”, osserva Jean-Luc Angot, presidente del Comité National d’Ethique des Abattoirs (CNEAB-Comitato nazionale di etica dei macelli), riferendosi ai video delle ONG che hanno come bersaglio il documentare l’operato di allevamenti e macelli non conformi. “Non dovremmo pensare in termini di lotta o reazione, ma in termini di azioni”, ha affermato il funzionario.
 
Quest'ultimo ha fatto riferimento alla legge Egalim, che estende ai trasporti e ai macelli le condizioni già imposte agli allevamenti. “L'etichettatura del benessere degli animali è importante per il consumatore, ma anche per distinguersi da altri mercati che non seguono le stesse regole”, ha affermato.
 
“All'interno delle ONG ci sono veri specialisti con cui possiamo lavorare”, ha affermato Ywan Penvern, partner di Deloitte Sustainability France, che ha citato in particolare i progetti pilota sulla videosorveglianza analizzati dall'intelligenza artificiale per identificare le criticità ​​in allevamenti e macelli.
 
“L'aumento della quota di pelli di prima qualità”, ha ricordato lo specialista, “è il risultato di tutti i mezzi che hanno portato a una migliore disinfezione dei locali, a minori fonti di danno negli allevamenti, a un aumento dalla vaccinazione contro la tigna, al trattamento sistematico contro i pidocchi”.
 
Ma le ONG e gli attivisti non sono in realtà gli unici a prendere di mira i professionisti della pelle. “Alcuni usano questi argomenti come trampolino di lancio politico. Altri hanno interessi economici nascosti, con gruppi che fanno accordi per non essere presi di mira”, avverte Eric Denécé. “Ma c'è anche una destabilizzazione competitiva, con gruppi che inviano le ONG verso i loro concorrenti. Quindi non ci sono solo le ONG vegane che dovete affrontare: a volte ci sono anche altre aziende”, sostiene lo studioso.
 
I marchi di calzature di fronte alla sostenibilità
 
Per questa edizione del Sustainable Leather Forum, il CNC ha voluto occuparsi del caso specifico delle calzature. E più precisamente dare uno sguardo alle scarpe sportive e agli sforzi di gruppi e marchi per rendere sostenibile la loro filiera di fornitura, anche al di là dell'uso della pelle, in particolare in termini di ordini a lunga distanza. Il settore ha registrato 480 milioni di paia importati nell'anno fiscale 2019.

CNC


“Questi 480 milioni, non potremo comprarli in Francia”, afferma inizialmente in modo perentorio Mickaël Royer, vicepresidente del gruppo omonimo (Kickers, Mod8, Charles Jourdan…). “Perché abbiamo perso un po' di know-how, ma anche per la mancanza di investimenti in innovazione che ha fatto sì che alcune fabbriche in Asia siano più moderne di quelle in Europa”.
 
Il suo gruppo non ha un riflesso globale sul Made in France, al di là di progetti una tantum, in parallelo a produzioni portoghesi, spagnole e italiane. In termini di sostenibilità del prodotto, il gruppo punta invece all'etichettatura GRS (Global Recycled Standard), che garantisce il ricorso a materiali riciclati.
 
Il gruppo Salomon ha raccolto la sfida delle scarpe riciclabili al 100% con il suo modello “Index.01”, realizzato in poliestere riciclato e TPU (poliuretano termoplastico), con l'obiettivo di sviluppare anche una scarpa Made in France. Che da poco tempo è cosa fatta. Infatti, Salomon ha appena iniziato a produrne i primi modelli, che saranno venduti all'inizio del 2022. Uno sviluppo consentito dall'impianto ASF 4.0 ad alta tecnologia sviluppato dalla società Chamatex, dell'Ardèche, e di cui Salomon è il partner principale. “L'Asia rimarrà il centro nevralgico delle scarpe sportive”, avverte Marie-Laure Piednoir, responsabile dello sviluppo sostenibile del marchio, che tuttavia sottolinea come Salomon abbia razionalizzato la sua rete di fornitori, ridotta a due, “il che facilita i controlli”.
 
Quanto a TBS, marchio del gruppo Eram, il Made in France rappresenta già 180.000 paia all'anno e il 20% del fatturato. Una percentuale che l'azienda intende rafforzare. “Ciò richiede uno snellimento dei processi industriali, a volte ancora piuttosto arcaici”, sottolinea Pauline Ranger, responsabile del prodotto calzaturiero, la quale cita un progetto di infradito realizzate con alghe riciclate, e il progetto “Yourth”, che presto permetterà di proporre una sneaker in feltro di lana del Morbihan. “L'ecodesign non è solo una questione di prodotto, è un intero ecosistema, che deve essere costruito”, riassume la manager.
 
Creatore e direttore dell'azienda Insoft, proprietaria del marchio di calzature Ector, Patrick Mainguené ha fatto di innovazione, prossimità e ambiente le sue parole chiave. “Volevamo dimostrare di essere in grado di offrire prodotti a bassa tecnologia a marchi che lo richiedessero”, spiega il produttore, che ha preso parte al recente progetto “Cité de la Chaussure” a Romans-sur-Isère e al progetto di centro di riciclaggio calzature sostenuto da ReFashion vicino a Berlino. “Questi milioni di paia sono un deposito di cui non si sa che fare e che bisogna sapere come riciclare”, sottolinea il produttore.
 
“Riciclare una scarpa è ancora molto complicato, perché ha molti componenti”, ha affermato Mickaël Royer. “Si può distruggerla tutta per provare a fare qualcosa di nuovo, ma smontarla pezzo per pezzo non è ancora un'opzione. È qui che Vinted e il second hand rimangono la soluzione migliore. Sta a noi partire dal principio che, se i nostri prodotti vivranno più a lungo, dovremo pensarli di conseguenza”, conclude il manager.

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