25 mag 2021
Nel New Normal post-pandemia vince la moda che sposa l’approccio H2H, Human-to-Human
25 mag 2021
Priorità alle persone, attenzione alla filiera e al value-for-money e soprattutto un nuovo modo di intendere la sostenibilità. Sono questi i fattori chiave che permetteranno ai brand di moda di coinvolgere i consumatori nella Nuova Normalità post-pandemia. È quanto è emerso dalla ricerca “The Future of Retail Store and Customer Engagement in the New Normal”, condotta dagli studenti del MAFED, il Master in Fashion, Experience & Design Management di SDA Bocconi, e promossa da Salesforce, azienda tra le leader globali nel CRM (Customer Relationship Management), per comprendere i cambiamenti negli usi e costumi di chi compra capi d’abbigliamento e accessori moda.
Gli studenti, tra gennaio e febbraio scorsi, hanno sottoposto un questionario a centinaia di consumatori in tutta Europa e in parallelo hanno intervistato una quindicina di manager di aziende per comprendere a fondo azioni e piani strategici per il futuro. Ne sono emerse 5 tendenze principali.
La sostenibilità passa innanzitutto dal benessere delle persone
La sostenibilità intesa come impegno a salvaguardare le risorse del pianeta non è più sufficiente da sola per definire le aziende davvero eco-sostenibili, ma occorre più attenzione agli esseri umani che vi lavorano. Sebbene oltre la metà dei consumatori si dica disposto a spendere dal 5 al 20% in più per capi di abbigliamento con un impatto ambientale e sociale significativo, i consumatori di oggi chiedono di più: il benessere dei dipendenti (66%), la trasparenza della filiera (35%) e una riduzione del consumo di energia e acqua nella produzione (33%). L’82% dei consumatori si aspettano che i brand di moda mettano al primo posto la salute, la sicurezza e il benessere dei dipendenti. Perciò rimane alta l’attenzione per la parità di genere (45%) e l’impegno da parte dei brand a mantenere relazioni di fiducia con i fornitori (50%).
Comprare meno, ma meglio: il boom del pre-owned
Nel 2020 la spesa per i capi di abbigliamento è diminuita del 68% rispetto al 2019. Ciò si traduce nella grande importanza attribuita oggi dalle nuove generazioni aI value-for-money, una priorità nelle scelte di acquisto per il 73% del campione intervistato. I consumatori preferiscono investire in capi con una maggiore qualità (54%) e destinati a durare nel tempo (45%). Si sta così affermando la tendenza ad acquistare prodotti pre-owned, ovvero di seconda mano. E sebbene il fenomeno interessi soprattutto le nuove generazioni, non sarà una moda passeggera, ma una tendenza destinata a restare. I dati dell’indagine evidenziano infatti che il 69% dei consumatori è disposto a pagare un premium price per comprare vestiti di seconda mano verificati dai brand, contribuendo così all’economia circolare.
“Il fenomeno del pre-owned, che potrebbe essere percepito come una minaccia, permette in realtà ai marchi di moda di allungare il ciclo di vita dei prodotti, contribuire all’economia circolare e renderer determinati prodotti più accessibili anche a nuove categorie di consumatori”, commenta Erica Corbellini, Professoressa in Fashion & Luxury Management presso SDA Bocconi School of Management. “La recente decisione di Kering di acquistare una quota di Vestiaire Collective ne è un ottimo esempio e ci conferma che il futuro della moda passerà anche per il second-hand”.
I sales assistant diventano i nuovi influencer
Il vero cambio di paradigma arriva con il terzo fattore preponderante nel prossimo futuro: il nuovo ruolo dei sales assistant, che con la pandemia sono diventati dei veri e propri virtual personal shoppers. Essi non sono più solo commessi nel senso classico della funzione, bensì anche stylist, capaci di guidare il cliente nel processo di acquisto online, permettendo così di generare una connessione e un legame molto più forte con il brand, vere figure di relazione a 360 gradi che hanno conoscenza del brand e del cliente stesso, cui forniscono suggerimenti mirati e un’attenzione particolare. Secondo la ricerca SDA Bocconi/Salesforce si sta dunque vivendo un passaggio culturale dal B2C (business to consumer) all’H2H (human to human): nel momento in cui la tecnologia gestisce le interazioni, è importante che la relazione avvenga tra persone.
“In Cina impazza ad esempio il live streaming commerce con influencer che, in cambio di virtual gift per i propri fan, vendono prodotti in diretta, interagiscono direttamente con gli spettatori e acquisiscono nuovi clienti”, sostiene Erica Corbellini. "Possiamo immaginare che sempre più la vendita si trasformerà in ‘edutainment’, una commistione tra education, rispetto alla qualità del prodotto e ai codici del brand, e intrattenimento”.
Local? Sì, ma solo se (anche) digitale
La disponibilità a comprare nei piccoli negozi e nelle botteghe del territorio è frenata spesso dal fattore convenienza. In buona sostanza, i consumatori si orientano ai piccoli rivenditori locali solo se il prezzo dei prodotti è contenuto e la modalità di acquisto risulta semplice, grazie ad esempio a un sito web, in quanto hanno imparato a non fare più a meno della multicanalità e dell’online per i loro acquisti. Ne consegue che sia la piccola bottega di quartiere che il grande multimarca devono saper coinvolgere le persone attraverso il digitale anche in termini di prossimità.
Millennial e Gen Z chiedono di più al “Made in”
Quinto fattore della nuova normalità post-Covid riguarda il Paese di origine di un prodotto, che resta un fattore di scelta significativo per chi ha più di 55 anni (53%), ma tra i consumatori al di sotto dei 40 anni d’età il fattore “Made in” fine a sé stesso conta poco (appena del 30% per i Millennial) mentre a contare realmente sono la trasparenza e la tracciabilità della filiera. In sostanza, per i più giovani, un prodotto “Made in China” può essere ritenuto di maggior valore se dotato di infomazioni sulla sua tracciabilità rispetto a un prodotto “Made in Italy” di cui non si sa nulla.
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