La politica “zero Covid” in Cina può rallentare la ripresa dell'industria tessile?
La Cina tossisce e l'intera industria tessile trattiene il respiro. In un momento in cui a livello locale l'epidemia sembra manifestare una recrudescenza, la politica “zero Covid” dell’ex Impero Celeste, consistente nel confinare ampi territori in lockdown non appena emergono nuovi casi non è più unanimemente considerata valida e fa temere agli industriali che la loro produzione subirà un rallentamento dall’oggi al domani, come sta avvenendo attualmente nelle regioni tessili di Shenzhen e Shanghai.
A nord di Hong Kong, la provincia del Guangdong ha visto 17 milioni di persone confinate a causa di 66 casi confermati. Informazioni che hanno fatto rabbrividire gli imprenditori internazionali, in quanto la provincia ha gradualmente concentrato nel corso del tempo un gran numero di industrie del tessile-abbigliamento che lavorano per l'esportazione. All'inizio della crisi, ben 28.276 aziende tessili locali esportavano la loro produzione. Un peso che di recente ha spinto anche i maggiori saloni internazionali del tessile-abbigliamento a rivolgersi alla capitale locale di Shenzhen, che si tratti della francese Première Vision o delle grandi fiere cinesi Intertextile e Chic, che qui hanno spostato il loro appuntamento principale di Shanghai.
Shanghai sta facendo preoccupare anche i clienti dell'industria cinese. Negli ultimi giorni anche la più popolosa città della Cina ha attuato dei lockdown in vaste aree del suo territorio. Ma la metropoli si trova al centro di un altro bastione del tessile-abbigliamento. La provincia di Jiangsu, a nord, e quella di Zhejiang, a sud, avrebbero rispettivamente circa 13.600 e 12.300 aziende tessili esportatrici, secondo le statistiche del comparto.
Per il momento, lo Shandong, la quarta provincia in ordine d’importanza come esportatrice di tessuti della Cina, sfuggirebbe alle misure di contenimento.
“Siamo in grado di produrre rispettando le misure sanitarie, ma questi improvvisi confinamenti rischiano di spaventare i nostri clienti”, ha confidato a FashionNetwork.com il rappresentante di un produttore di scarpe del Jiangsu. Che sottolinea anche i suoi timori per i consumi locali dovuti alla chiusura dei centri commerciali e a consumatori che sono molto meno in vena di fare acquisti. “Da qualche giorno i clienti ci contattano perché preoccupati. Questa soluzione (la politica “zero Covid”, ndr.) è sicuramente efficace, ma non bisognerebbe perdere quegli ordini che siamo appena riusciti a ritrovare”.
Il timore è che la filiera cinese veda interrompersi quello slancio iniziato nel 2021, visto che la Cina ha aumentato le proprie esportazioni di abbigliamento del 24% lo scorso anno e ha registrato un aumento del 16% rispetto al periodo pre-crisi. Da parte dei committenti, che devono fare i conti con la persistente crisi del trasporto marittimo e l'impennata del costo del trasporto aereo a seguito dell'invasione dell'Ucraina, si temono ulteriori ritardi.
Il nervosismo degli imprenditori è comprensibile, e in particolare in Europa, dove marchi e distributori messi a dura prova dalla crisi sanitaria sono ormai rassegnati a vedere i consumi appesantiti dal clima di guerra che attraversa il Vecchio Continente. La Cina resta di gran lunga il primo fornitore mondiale di abbigliamento, con 142 miliardi di dollari (129,7 miliardi di euro) di beni esportati nel 2020, molto più avanti del Vietnam (28 miliardi) e del Bangladesh (27 miliardi), secondo l'Organizzazione Mondiale del Commercio.
Questa ripresa dell'epidemia in Cina danneggia anche i produttori di abbigliamento occidentali, che si riforniscono ampiamente di tessuti e altre materie prime dal Regno di Mezzo. Prima della crisi, la Cina era il principale fornitore di tessuti dell'UE, con 11,3 miliardi di euro di materiali, secondo l'Institut Français de la Mode. Molto, molto più avanti di Turchia (4,8 miliardi) e India (2,7 miliardi). Se a questo si aggiunge l'impennata dei prezzi dei trasporti, l'equazione diventa ancora più complicata per i produttori di tutto il mondo.
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