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21 feb 2023
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La moda italiana si veste di green e rimane alla larga dalla Borsa

Di
Ansa
Pubblicato il
21 feb 2023

La moda italiana, dopo due anni in cui ha corso a doppia cifra, arriverà nel 2023 ad avere un giro d'affari di 90 miliardi anche se il difficile contesto macroeconomico la costringerà a rallentare. Sono le previsioni degli analisti dell'area studi Mediobanca che, analizzando i dati finanziari di 152 società della moda con sede in Italia, mettono in luce un 2022 molto positivo con una crescita del giro d'affari nominale a livello aggregato del 20% (a 82 miliardi di euro, +21% sul 2019) e per il 2023 prevedono un ulteriore incremento dell'8 per cento.

@cameramoda


Nel 2021 è iniziata una ripresa a "V" a 68,6 miliardi di euro (+32,7% sul 2020), superando dello 0,9% i livelli pre-pandemici, con l'impiego di quasi 260mila dipendenti (+1,3% sul 2020 e -4,4% sul 2019). Il fatturato estero registra un rimbalzo più sostenuto (+35,7%) rispetto a quello nazionale (+28,7%). I produttori di alta gamma reagiscono con maggior forza rispetto a quelli mass-market, superando i livelli del 2019 dell'1,1%, mentre i produttori della fascia più economica si trovano ancora al di sotto dei livelli pre-crisi (-3,6%).

Le prime venti aziende rappresentano da sole oltre la metà del fatturato aggregato. Al primo posto per ricavi si conferma Prada (3,4 miliardi) che precede Luxottica Group (3,2 miliardi), consolidata dalla multinazionale EssilorLuxottica, e Calzedonia Holding (2,5 miliardi). Seguono Moncler e Giorgio Armani con un giro d'affari di 2 miliardi ciascuno. La redditività segnala una dinamica calante: l'ebit margin scende dal 12,1% del 2019 al 10,6% del 2021, dopo l'impatto dirompente della crisi quando si era fermato al 4,5%. I prodotti di alta qualità continuano a premiare la redditività, con l'alta gamma a chiudere il 2021 con un ebit margin del 10,8%, il 46% al di sopra dei valori dei produttori mass market (7,4%).

Il podio per redditività vede al primo posto Fendi (32,8%), davanti a Renato Corti (29,5%) e Gingi (29,2%, principale marchio Elisabetta Franchi). In rimbalzo del 46,4% sul 2020 gli investimenti che superano dell'8,9% i livelli pre-crisi (330 milioni in più sul 2019). Fra le aziende produttive, nel comparto della gioielleria la crescita è stata anche più consistente (+189,1%).

Sul fronte patrimoniale, le aziende della moda rafforzano la propria struttura finanziaria (debiti finanziari sul capitale netto al 40,8% nel 2021 dal 56,8% del 2019), con i produttori di occhiali, abbigliamento e tessuti a distinguersi come i più capitalizzati. La maggior parte preferisce restare alla larga dalla Borsa, solo 11 sono le società quotate (rappresentano il 17,5% del fatturato aggregato); al 15 febbraio il podio è occupato da Prada (15,9 miliardi di capitalizzazione), Moncler (15,7 miliardi) e Brunello Cucinelli (5,5 miliardi); medaglia di legno per Salvatore Ferragamo (3 miliardi), seguita da Tod's (1,2 miliardi). Tutte le altre società del panel registrano una capitalizzazione inferiore al miliardo di euro.

Dall'analisi dei bilanci di sostenibilità 2021 emerge la crescente attenzione alle tematiche Esg (Environment, Social and Governance), accelerata dalla pandemia e numeri alla mano. Le aziende italiane della moda si impegnano con incisività per un futuro più sostenibile e per la salvaguardia dell'ambiente. Mediamente diminuiscono le emissioni di CO2 (-20,8% da 1.766 tonnellate di CO2 per un milione di fatturato nel 2020 a 1.462 nel 2021; -20,8%) e i rifiuti prodotti (da 2,9 tonnellate per un milione di fatturato nel 2020 a 2,4 nel 2021; -17,2%). Aumenta invece il ricorso alle fonti rinnovabili (dal 38,4% nel 2020 al 43,4% nel 2021) e la quota di rifiuti riciclati (dal 65,5% nel 2020 al 73,5% nel 2021).

Relativamente alla supply chain, dall'analisi dei bilanci di sostenibilità emerge che i fornitori dei maggiori player italiani della moda sono mediamente localizzati per il 56% in Italia, per il 30% in Asia, per l'11% nel resto dell'Europa, per il 2% in Africa e per il restante 1% nelle Americhe. Il ricorso a terzisti italiani è massimo per le aziende di alta gamma (80%) che adottano una strategia di maggiore qualità e prossimità, mentre le società vocate a prodotti di fascia più economica si rivolgono soprattutto a fornitori asiatici (58%). Rispetto al 2018, la mappa della supply chain appare oggi leggermente modificata a favore dei fornitori italiani che nel periodo 2018-2021 hanno aumentato il proprio peso specifico di due punti percentuali (dal 54% al 56%), a discapito soprattutto dei fornitori dell'Europa dell'Est e dell'Asia. La collaborazione con i terzisti pare quindi oggi privilegiare quelli tricolore, in coerenza con la tendenza a riportare in Italia produzioni che in passato erano state delocalizzate. Attualmente si stanno evidenziando due strategie prevalenti: da una parte, una spinta alla realizzazione di nuove fabbriche in Italia o l'ampliamento di quelle già esistenti, dall'altra una differente allocazione dei propri fornitori, rafforzando le collaborazioni con i terzisti chiave e più prossimi, anche attraverso joint venture o acquisizioni.

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