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La Fed stringe i rubinetti, la Bce prende tempo

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Ansa
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4 nov 2021

La Federal inizia a ridurre gli acquisti di bond nel segno di una normalizzazione. La Bce invece frena e respinge le pressioni dei mercati per un rialzo dei tassi già nel 2022. Una sorta di 'decoupling' fra le due banche centrali: ma più che un divorzio è una 'separazione a tempo' delle rispettive politiche monetarie, giustificata dallo shock pandemico più forte in Europa, e dai problemi dei Paesi più deboli dell'euro, a partire dall'Italia.

Christine Lagarde


La banca centrale Usa ha annunciato l'atteso 'tapering': inizierà già a novembre a ridurre gli acquisti di circa 15 miliardi al mese. Non scaricherà sul mercato il debito accumulato in bilancio, ma ridurrà progressivamente il ritmo degli acquisti fino ad azzerarli a metà 2022. Una mossa motivata dalla ripresa, dall'occupazione in miglioramento e da un'inflazione al galoppo (5,4%). Nella testa degli investitori c'è (al 90%) almeno un rialzo dei tassi entro il 2022, che tuttavia il presidente Jay Powell ha stemperato perché a spingere l'inflazione sono fattori "temporanei".

La decisione di oggi "non implica alcun segnale" sui tassi - ha detto - "non riteniamo che sia il momento per la Fed per alzare i tassi”. Tutt'altra aria tira alla Bce, nonostante gli acquisti di debito abbiano nel tempo superato il 77% del Pil, quasi il doppio del 38% della Fed. La ripresa è ben avviata e l'inflazione corre al 4,1%, ma ci sono ancora due milioni di occupati in meno rispetto a prima della pandemia. E c'è un problema strutturale, la divergenza nord-sud con la pandemia che ha lasciato Paesi come l'Italia più indebitati più che mai e dipendenti dallo 'scudo' anti-spread.

La scorsa settimana la presidente Christine Lagarde non era stata molto convincente nel respingere la scommessa dei mercati su un rialzo dei tassi già nel 2022 di fronte alla corsa dei prezzi. E così gli investitori sono andati dritti per la loro strada, facendo salire l'euro e, soprattutto, i rendimenti dei titoli di Stato (in anticipazione di tassi più alti). Lo spread italiano ha suscitato allarme, volando due giorni fa ben sopra 130, ai massimi di un anno nonostante il Recovery, l'ombrello della Bce e il Governo Draghi con la sua ampia maggioranza. Col risultato che Lagarde ha dovuto correggere il tiro: l'inflazione accelera, ma per fattori temporanei (strozzature d'offerta e rincari energetici). Il rialzo dei tassi che i mercati scontano entro fine 2022 poggia su condizioni che "è molto improbabile si realizzino il prossimo anno". E "anche dopo la fine attesa dell'emergenza pandemica, sarà ancora importante che la politica monetaria sostenga la ripresa".

Parole che sono valse a far scendere lo spread italiano sotto 120 (122 in chiusura), far arretrare leggermente l'euro fino a a 1,156 dollari e ridare tono alle Borse (Milano +0,69%). Ma durerà poco se alle parole non seguiranno i fatti. Perché gli investitori sembrano dell'idea che la grande marea della politica monetaria iper-accomodante, iniziata con la grande crisi finanziaria oltre un decennio fa, sta cominciando a tornare indietro.

Al Consiglio Bce del 16 dicembre ci saranno le nuove previsioni economiche, che si apprestano alla sesta revisione al rialzo di fila dell'inflazione nel 2021, 2022 e forse 2023. Indicando che nel 2024 i prezzi torneranno sotto l'obiettivo del 2%, consentiranno probabilmente di non alzare i tassi dando peso alle parole di Lagarde. Più complesso il nodo della scadenza, a marzo 2022, del programma pandemico 'Pepp': è cruciale nel tenere a freno lo spread perché può comprare debito di un Paese oltre il limite dei precedenti programmi di quantitative easing. Si discute di potenziare per alcuni mesi e rendere flessibile il programma preesistente, l'App, ma ci sono scogli legali. Alternativa, un programma 'ponte' per accompagnare la transizione. Lagarde da mesi segnala che la Bce non consentirà un inasprimento delle condizioni finanziarie. Ma la 'grande normalizzazione' è un fatto: il Btp a 10 anni rende l'1,045%, solo pochi mesi fa era a 0,50%.

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