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11 nov 2021
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John C. Jay (Uniqlo): “Sostenibilità, stile e cultura sono elementi ormai inseparabili del business”

Pubblicato il
11 nov 2021

La scorsa estate l’azienda giapponese di abbigliamento Uniqlo, il fiore all’occhiello del colosso Fast Retailing guidato da Tadashi Yanai, aveva lanciato un primo assaggio della sua nuova linea, e filosofia produttiva, LifeWear, con una prima collezione di abbigliamento studiata insieme a 13 atleti nazionali svedesi. I capi della label LifeWear sono pensati per avere una missione sociale ed essere funzionali e sostenibili grazie all’utilizzo di poliesteri riciclati, idrorepellenti senza fluoro o tecniche che minimizzano gli scarti tessili.

Oggi, John C. Jay, dal 2015 Presidente Global Creative di Uniqlo e di tutto il gruppo Fast Retailing, e nome quasi mitico della creatività, del marketing e della comunicazione legati all’abbigliamento e allo sportswear, ha raccontato a FashionNetwork.com come sta evolvendo il brand nipponico, e quali visioni, filosofia e novità ha nei piani futuri, accompagnando il lancio di “LifeWear: Made for All”, campagna multimediale basata su interviste personali con la leggenda svizzera del tennis Roger Federer, l’artista newyorkese Futura, la campionessa di tennistavolo del team Uniqlo Svezia Anna-Carin Ahlquist, e il direttore artistico di Uniqlo U, il francese Christophe Lemaire, del Centro Ricerca e Sviluppo Uniqlo di Parigi.

John C. Jay - Uniqlo


FashionNetwork.com: Come descriverebbe la filosofia LifeWear?
John C. Jay: Mai, e sottolineo mai, vedrete queste mani realizzare vestiti monouso o queste labbra parlarne. Artigianalità e valore in tanti utilizzi sono concetti cardine per noi. Punto 1: in questa fase storica, i vestiti che utilizzavamo per rilassarci nel privato sono usciti dalle nostre case mixandosi col businesswear più formale, e i vestiti che indossavamo nelle pratiche sportive outdoor sono entrati nelle nostre vite più casalinghe. Punto 2: dettagli, dettagli, dettagli, a riflettere il tipico know-how nipponico. Nei nostri capi, in ogni stagione ci deve essere un progresso, un miglioramento, che in alcune occasioni può essere anche minimo, del 2%, o invisibile, ma deve esserci. Punto 3: ogni capo prodotto fa implicitamente una dichiarazione di moda, anche se è privo di logo. Perciò occorre sfidare il concept del ‘prodotto di massa’, che deve diventare termine con un’accezione positiva. C’è sempre stato un conflitto tra le idee di alta qualità e prezzo democraticamente accessibile. Noi vogliamo metterle insieme, a partire proprio dal concept LifeWear, che veicola visione e valori del nostro futuro. Lo dimostra il claim descrittivo della sua campagna mediatica, “LifeWear: Made for All”, fatto per tutti.
 
FNW: Come evolverà il futuro di Uniqlo?
JCJ: Siamo sempre stati un marchio ottimista e anche nell’ultimo oscuro anno e mezzo abbiamo sempre cercato la positività. In Giappone, per esempio, durante la pandemia abbiamo inaugurato negozi nei quartieri di Ginza e Harajuku a Tokyo e un’altra boutique a Yokohama. Eravamo determinati a non lasciarci sconfiggere dal Covid, pur realizzando tutto in totale sicurezza. Il primo viaggio che ho compiuto durante la pandemia è stato in Italia. Volevo mostrare tutto il mio supporto per Milano, dove a settembre 2019 avevamo inaugurato il nostro primo flagship locale, con Roger Federer che ha parlato della filosofia LifeWear, ma anche per filmare la dedizione di una squadra di soccorso alpino milanese fatta di volontari, per la campagna della label. 

FNW: Lei fu il creatore della filosofia/concept di comunicazione e marketing “City Attack”, che contribuì fattivamente a mantenere Nike in posizione di leadership nello sport negli anni ’90. Quanto di quell’approccio sperimentale ed esperienza performativa l’ha ispirata per LifeWear di Uniqlo?
JCJ: Molte persone pensano che filosofia del “City Attack” fosse basata su fredde tecniche di marketing, ma il suo approccio era tutto il contrario. City Attack nasce nel 1993. Avevo alle spalle un’esperienza da Bloomingdale’s e lavoravo per l’agenzia Wieden + Kennedy. Phil Knight, co-fondatore del marchio Nike, si era fatto dare da suo figlio un resoconto di ciò che si percepiva tra le strade di New York, dal quale era emerso che Nike stava perdendo rilevanza tra i giovanissimi e la scena underground dei quartieri della Grande Mela. Phil venne a parlarne cone me e ne derivò la strategia “City Attack”, ovvero entrare più nel profondo, umilmente e con rispetto, nella cultura di strada dei vari quartieri della città.
 
Incontra le persone che stanno rendendo quella cultura popolare importante, parla con loro, rispettane i valori e cerca di capire quali sono i loro sentimenti! Guadagnati il loro rispetto e fiducia prima di cercare di far loro pubblicità per vendergli qualcosa! Solo allora ti sarai reso credibile! Sono orgoglioso di poter dire che oggi chiunque da Nike conosce City Attack. E sì, quell’idea l’ho ripresa per Uniqlo. Basti pensare alla prima campagna che ho realizzato per il brand: persone vere e ispiratrici che parlano di vita e storie reali in un ambiente autentico.

FNW: Ha concepito delle strategie per rendere più creativa e disruptive la proposta di questa nuova collezione per Uniqlo?
JCJ: Sono un Baby Boomer, perciò io amo la parola ‘radicale’ e credo e voglio che Uniqlo sia un marchio radicale. La scorsa settimana ho presentato in azienda il piano di marketing finanziario per la prossima primavera e la prima parola che ho pronunciato è stata proprio ‘disruptive’, nel senso di dirompente e innovativo tanto da tagliare i ponti col passato. Ed è ancora più importante che noi siamo disruptive col nostro status quo, ovvero che non ci fossilizziamo in una zona di confort in cui si ripetano cose già fatte perché sono andate bene. La cultura, la tecnologia, le persone ci obbligano a perseguire il cambiamento. I nostri vestiti devono adattarsi a tutto questo. Come lo comunichiamo? In maniera disruptive.

Immagine creata da Nicola Laurora, aka Nico189, per lo store Uniqlo di Milano - Uniqlo


FNW: Uniqlo si è spesso ispirato alle opere di artisti rinomati. Perché avete scelto di dialogare con l'universo dell'arte? E dopo le recenti co-lab con Jeff Koons e il Museo del Louvre, avete in programma altre iniziative simili?
JCJ: L’ispirazione e l’influenza esercitate da Uniqlo devono provenire dalle persone vere nella vita vera, ed offire soluzioni pratiche. La scelta di collaborare con artisti locali - ma anche con grandi nomi come Jeff Koons o Takashi Murakami - in tutto il mondo viene da questa idea. Così come il lavorare con il MoMa, la Tate Gallery o il Louvre. Non è solo una questione di attenzione all’arte locale, ma di supporto ai negozi del posto durante la pandemia. Iniziative di collaborazione con artisti le continueremo a realizzare costantemente, ma sarà molto importante che al di là dei grandi nomi, con i quali siamo orgogliosi di dialogare, siano i creativi locali a poter beneficiare della nostra dimensione globale per veicolare il loro messaggio. Importantissimi poi per Uniqlo e per tutto il gruppo Fast Retailing i legami con la tradizione culturale giapponese e con la cultura pop degli anime e dei manga, un DNA che comprende anche la venerazione per la Natura.
 
Naturalmente bellezza e cultura rimangono fattori importanti, ma noi non dipendiamo dalle sfilate di moda, non le usiamo nemmeno per ispirarci. I negozi, con le esperienze fisiche che veicolano, d’ora in poi diventeranno più importanti che mai. Voremmo infatti che la gente pensasse che il punto vendita di Uniqlo sia il proprio store di quartiere, di vicinato, nel quale andare ogni settimana.
 
FNW: Già, i negozi fisici. Saranno ancora importanti nel prossimo futuro? E con l’aspetto della trasformazione digitale che sta diventando sempre più protagonista, tra fiere phygital e ulteriore boom dell'e-commerce, Uniqlo come si comporterà?
JCJ: È incredibilmente importante oggi implementare iniziative sempre nuove e originali nel campo digitale. La fusione tra digitale e brick & mortar deve essere inseparabile, per un nuovo concept del flagship store. Come raggiungiamo nuovo pubblico? Le iniziative digitali saranno fondamentali per trovarlo. Al momento stiamo infatti ripensando a come proporre il modello tipico del negozio fisico in una versione più moderna che lo renda più digitale.
 
La crisi pandemica ci ha forzati a ripensare il business, proprio come noi cittadini abiamo dovuto ripensare le nostre vite, e rivedere i servizi che offriamo, soprattutto a proposito di come ri-portare i prodotti alle persone, per esempio con ordini effettuati online, ma consegna fisica degli stessi in negozio; così l’e-commerce è diventato importantissimo, quasi un salvatore.
 
FNW: La sostenibilità è diventata un fattore preponderante per la moda?
JCJ: La sostenibilità oggi, come lo stile, è certamente parte della cultura. I giovani adesso la pretendono. Sostenibilità, stile e cultura sono tre elementi oramai inseparabili, che al giorno d’oggi fanno parte del business. Proprio per questi motivi, nei prossimi mesi Uniqlo realizzerà molte iniziative attente all’ecosistema.
 
FNW: Come definirebbe il suo attuale lavoro? E cosa voleva essere agli inizi del suo percorso?
JCJ: Parto da lontano. Quando ho iniziato la mia carriera ero nel giornalismo, ero un editorial designer, ho lavorato in varie riviste che si occupavano di temi sociali. Da buon Baby Boomer i giornalisti erano i miei eroi, perciò è un mestiere che ho sempre sognato di fare. Molte persone, quando sono stato nominato direttore creativo di Bloomingdale’s, credevano che provenissi da magazine di moda e lifestyle, invece venivo da riviste di business, scientifiche, mediche e politiche. Così, quando cinque anni fa ho disegnato il nuovo quartiere generale di Uniqlo in Giappone, a Tokyo, il mio primo passo è stato costruire la migliore biblioteca di fashion design della capitale giapponese, nella quale ho insistito fossero inclusi i giornali.
 
E poi sì, tante volte mi è stato chiesto in cosa consista effettivamente il mio lavoro odierno. Io rispondo che consiste nel creare la più alta qualità di esperienze per la maggior quantità possibile di persone sulla Terra, che significa negozi, comunicazione, online, vestiti, collaborazioni con artisti, esperienzialità, valori di artigianalità e sostenibilità.

Uniqlo, il flagship di Milano


FNW: Dunque, alla fine, qual è secondo lei la cultura locale in Italia?
JCJ: Ho una lunga storia d’amore con l’Italia, sin dai tempi di Bloomingdale’s, per il quale il mio ultimo progetto fu allestire con un omaggio a cultura e stile italiani tutti e dieci i piani del department store, ma non vivendo da sempre in Italia è una domanda pericolosa per me (ride). In ogni città, in ogni quartiere esiste in fondo una differente cultura locale. E io conosco meglio Milano, di Roma, ad esempio. L’italia è molto sofisticata. Senza finire nello stereotipo dell’eleganza e del buon vivere, la cultura in ogni città italiana è unica. Come per City Attack, quando comprendemmo e celebrammo le differenze tra i quartieri di New York, perché il Bronx non è Manhattan, e Manhattan non è il Queens, che a sua volta non è Staten Island o Brooklyn. Rispettare le differenti culture locali è ciò che cerchiamo di fare quando apriamo negozi in altri Paesi.
 
Fondata in Giappone nel 1984, Uniqlo conta ora più di 2.200 negozi in tutto il mondo, oltre la metà dei quali si trova fuori dal Giappone, in 25 mercati (Australia, Belgio, Canada, Cina, Corea del Sud, Filippine, Francia, Germania, Hong Kong, Indonesia, Italia, Malesia, Paesi Bassi, Russia, Singapore, Spagna, Svezia, Taiwan, Tailandia, Regno Unito e Stati Uniti). Inoltre, Uniqlo - che ha chiuso il 31 agosto scorso il proprio esercizio finanziario 2020/21 con un risultato netto in rialzo dell'88%, a 169,8 miliardi di yen, l'equivalente di 1,2 miliardi di euro, e un fatturato di 2.130 miliardi di yen, pari a 16 miliardi di euro - nel 2010 ha stabilito un business etico in Bangladesh insieme alla Grameen Bank e oggi a Dacca si contano diversi negozi Grameen-Uniqlo.
 
Nell’ambito della filosofia LifeWear, Uniqlo ricicla abiti usati, ma in buone condizioni, dei suoi clienti per garantire ai capi una seconda vita. Grazie alla partnership con l'UNHCR (Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati), questi capi vengono donati ai rifugiati e a tutti coloro che vivono in situazioni gravi in tutto il mondo, tiene a sottolineare la società. Ad oggi, il gruppo Fast Retailing (i cui altri marchi sono GU, J Brand, Theory, Comptoir des Cotonniers e Princesse tam.tam) ha donato oltre 30 milioni di capi di abbigliamento a 65 nazioni e regioni del mondo.

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