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Pubblicato il
3 ott 2019
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I brand mondiali del lusso contano i danni delle proteste di Hong Kong

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Reuters API
Pubblicato il
3 ott 2019

I grandi marchi del lusso, da Prada a Cartier, stanno contando i danni causati delle proteste in corso da quattro mesi a Hong Kong, che hanno allontanato i turisti e costretto diversi negozi a chiudere. 

reuters


Hong Kong, tra le cinque maggiori destinazioni del lusso nel mondo, è stata a lungo una calamita per i grossi brand grazie al flusso di visitatori provenienti dalla Cina continentale. Secondo Bernstein, nella città viene realizzato tra il 5% e il 10% delle vendite globali di beni di lusso, stimate intorno a 285 miliardi di dollari l’anno. 

I dati diffusi ieri sulle vendite al dettaglio ad Hong Kong hanno però mostrato in agosto un calo tendenziale del 23% - il più ampio mai registrato - con le vendite di gioielli, orologi ed altri oggetti di lusso crollate del 47,4%. 

I turisti sono diminuiti del 39%, con il numero dei visitatori dalla Cina continentale in calo del 42,3%. 
“Non vediamo alcuna luce alla fine del tunnel”, ha commentato Annie Tau Tse, presidente dell’Hong Kong Retail Management Association. 

Poiché le proteste a difesa della democrazia sono cominciate a giugno, l’impatto sui risultati finanziari dei gruppi del lusso è stato lieve nel secondo trimestre, ma le cose potrebbero essere diverse nel terzo quarter visto che marchi come Hermes e Tiffany hanno dovuto gestire la chiusura di alcuni negozi. 

Rogerio Fujimori, analista di RBC che è appena stato a Hong Kong, prevede per la maggioranza dei brand una contrazione delle vendite tra il 30% e il 60% nel periodo giugno-settembre. Bain&Co stima per quest’anno una crescita globale del settore nella parte bassa della forchetta 4%-6% indicata nei mesi scorsi, dice l’analista Claudia D’Arpizio.
 
Saranno probabilmente le aziende che producono orologi quelle più colpite, visto il ruolo rilevante di Hong Kong in questo segmento di mercato; le svizzere Swatch e Richemont, proprietaria del marchio Cartier, fanno qui tra l’11 e il 12% delle loro vendite totali. 

Sono una trentina i grandi centri commerciali che hanno dovuto chiudere durante le proteste antigovernative, segnate da un picco di violenza il primo ottobre in occasione del 70esimo anniversario della nascita della Repubblica popolare cinese. Chiusure che cadono proprio durante la cosiddetta “Settimana d’oro”, uno dei periodi festivi generalmente più redditizi per lo shopping. 

“Gli affari sono stati indubbiamente molto colpiti. Le vendite erano già in notevole calo ed adesso le chiusure renderanno le cose ancora più difficili. È molto più complicato attrarre clienti”, ha riferito a Reuters un addetto alle vendite dello store Gucci del centro commerciale Pacific Place, che ha preferito restare anonimo. 

Il marchio di gioielli statunitense Tiffany, che ha a Hong Kong il suo quarto mercato, ha parlato di un impatto rilevante sui propri affari, anche se spera che i nuovi negozi aperti sia a Hong Kong che nella Cina continentale possano controbilanciare il calo delle vendite. 

“L’attività nei centri commerciali non è minimamente paragonabile al passato e talvolta facciamo fatica anche solo a tenere i nostri negozi aperti”, ha detto a Reuters l’AD Alessandro Bogliolo a fine agosto. 

Il mese scorso, la francese Hermes - che produce le costosissime borse Birkin - ha detto di essere stata costretta a chiudere temporaneamente qualcuno dei suoi cinque negozi oltre a quello dentro l’aeroporto di Hong Kong. Chanel ha rinviato la sfilata in programma il 6 novembre per presentare la collezione Cruise, dicendo che si terrà “in futuro, in un momento più appropriato”. 

Tuttavia, la maggior parte delle società non sta ancora cambiando drasticamente il proprio modello di business. Tiffany a settembre è andata avanti come da programma con l’apertura del suo flagship store di One Peking Road. 

Alcuni brand del lusso come LVMH o Hermes saranno probabilmente in grado di attutire il colpo grazie alla crescente domanda nella Cina continentale e in altri paesi asiatici. LVMH, che realizza il 6% dei ricavi nell’ex colonia britannica, pubblicherà la trimestrale il 9 ottobre e non ha finora fatto commenti sull’impatto delle proteste. I suoi marchi Louis Vuitton e Christian Dior hanno beneficiato di una robusta domanda dalla Cina continentale negli ultimi mesi, in linea con il trend del gruppo Kering, che controlla Gucci. 

Secondo una fonte di settore, molti turisti facoltosi cinesi stanno spostando il proprio shopping in Giappone. Anche Corea del Sud, Australia e Singapore stanno beneficiando del declino di Hong Kong, dicono gli analisti. I cinesi sono stati incoraggiati dal governo a fare acquisti in patria grazie a politiche doganali e al taglio dell’IVA.
 
Tuttavia alcuni brand come gli italiani Tod’s e Prada non hanno registrato nella Cina continentale una crescita paragonabile a quella di LVMH o di Hermes. “Per alcuni gruppi che godono di una rete commerciale ben sviluppata in Asia, le proteste ad Hong Kong non vogliono dire necessariamente che perderanno soldi”, osserva Luca Solca, analista di Bernstein. 

Moncler, cita ad esempio l’analista, possiede il 30% in meno di negozi nella Cina continentale rispetto a Gucci e Vuitton e il suo amministratore delegato, Remo Ruffini, ha espresso una certa preoccupazione sull’impatto delle proteste sui risultati dell 2019. 

I beni di lusso sono più economici ad Hong Kong che nella Cina continentale; nella moda, i prezzi arrivano addirittura a dimezzarsi. “Alcuni cinesi potrebbero scegliere di comprare meno e semplicemente aspettare la fine delle proteste”, commenta Solca. 

Nel frattempo le aziende del lusso continuano a chiedere una riduzione degli affitti, che restano alle stelle. Secondo indiscrezioni della stampa locale, Prada starebbe pensando di chiudere il prossimo anno il suo punto vendita di 1.400 metri quadri nel cuore commerciale di Hong Kong. Secondo gli analisti di Jefferies, il proprietario dell’edificio sta valutando di abbassare l’affitto del 44%. Prada non ha commentato. Secondo un’altra fonte, tutti i principali brand stanno tentando di rinegoziare gli affitti per attenuare l’effetto delle proteste.

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