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Versione italiana di
Gianluca Bolelli
Pubblicato il
28 nov 2016
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Fast fashion: Greenpeace mette in guardia il settore

Versione italiana di
Gianluca Bolelli
Pubblicato il
28 nov 2016

In occasione del “Black Friday”, giornata di sconti praticati in molti negozi negli USA e in Europa, Greenpeace ha messo in guardia il comparto del tessile-abbigliamento contro il consumo eccessivo di vestiti, fonte di “gravi conseguenze ambientali”.

Foto: Ansa


La “fast fashion” genera rifiuti, scarti, inquinamento, gas ad effetto serra e non può, in questa fase, trovare soluzioni nel solo riciclaggio, secondo l'ONG. “I vestiti fanno parte degli articoli più venduti” durante il “Black Friday”, i saldi speciali organizzati negli Stati Uniti dopo il Giorno del Ringraziamento, e che oggi sono praticati anche in numerosi altri Paesi.

“E' difficile resistere al buon affare, ma fast fashion significa che noi consumiamo e gettiamo i vestiti più velocemente di quanto il pianeta possa sopportare”, sottolinea Kirsten Brodde, che guida la campagna “Detox my Fashion”, condotta dalla ONG sin dal 2011.

La produzione mondiale di vestiti è raddoppiata in questi ultimi 15 anni. Una persona compra il 60% di vestiti in più rispetto a 15 anni fa, e conserva ogni capo per la metà del tempo, secondo un sondaggio di McKinsey citato da Greenpeace.

I marchi hanno aumentato il numero di collezioni, mentre dal Brasile all'India alla Gran Bretagna i prezzi sono aumentati meno di quelli di altri beni di consumo correnti, alimentando la frenesia: nel 2014, per la prima volta, il numero di vestiti prodotti in un anno ha superato i 100 miliardi, vale a dire circa 14 ad essere umano, secondo lo stesso studio.

| Foto: Corbis


Ma gli impatti ecologici di tutto questo sono numerosi: dall'inquinamento chimico delle fabbriche all'utilizzo dei pesticidi e degli antiparassitari nei campi di cotone, e poi l'uso intensivo di acqua e di fonti energetiche causa del riscaldamento globale. Il boom del sintetico è particolarmente problematico, nota Greenpeace, soprattutto il poliestere, che emette più CO2 del cotone, ci mette molto tempo a decomporsi e può contenere microfibre di plastica, che avvelenano gli oceani.

E poi, “il riciclaggio è un mito!”, non ancora sviluppato tecnicamente e neanche commercialmente, aggiunge l'organizzazione. Degli stock di indumenti usati sono esportati verso i Paesi del Sud del mondo, ma il loro utilizzo è limitato dalla loro spesso scarsa qualità.

Per l'ONG, “i marchi devono ripensare il loro modello di moda 'usa e getta' e produrre dei vestiti che durino nel tempo. Come consumatori, abbiamo anche questo potere: prima di comprare qualcosa, tutti noi possiamo chiederci 'Ho davvero bisogno di questo?”, aggiunge Kirsten Brodde.

Versione italiana di Gianluca Bolelli; fonte: AFP

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