Covid-19: le altre “fabbriche del mondo” presto si fermeranno?
Dopo la Cina, altri importanti Paesi fornitori del tessile-abbigliamento si trovano ad affrontare il coronavirus. Dopo il contenimento parziale in Pakistan, ora è l'India a decidere il blocco totale. Al loro fianco, il Bangladesh, in piena festa nazionale, si prepara a sua volta ad adottare misure restrittive, dando origine al timore di una sospensione della produzione industriale alla maniera cinese. Mentre il suo vicino, la Birmania, si è impantanato nella negazione. Questi elementi mettono nuovamente in discussione le forniture per i marchi di moda occidentali. Marchi che, messi per il momento di fronte ad una distribuzione più che ridotta, non avevano scommesso sulla ripresa cinese, causando un'assenza di ordini nell’ex Impero Celeste e persino una riduzione di quelli in Bangladesh.

Il Bangladesh, l’India, il Pakistan e il Myanmar figurano tutti nella Top 10 dei fornitori di abbigliamento dell’Unione Europea. E svolgono anche un ruolo preponderante nella fornitura di tessuti al Vecchio Continente.
Il Bangladesh è il secondo più grande fornitore di abbigliamento dell’Europa dietro la Cina, con 17,6 miliardi di euro di merci nel 2019, secondo l’Institut Français de la Mode. Il paese arriva prima dell'India, che occupa il quarto posto con 4,9 miliardi. Il Pakistan è in settima posizione con 3,01 miliardi, e la Birmania è in nona piazza con 2,4 miliardi, registrando un'esplosione del +43% in un solo anno.
Dal Mar Arabico al Golfo del Bengala, questi quattro Paesi uguagliano dunque la Cina (26,8 milirdi di euro) nell’approvvigionamento all’Europa. La possibile sospensione delle loro attività industriali potrebbe, infatti, avere un impatto tanto grande quanto la crisi cinese che ha segnato l'inizio dell'anno. E soprattutto nella produzione di prodotti di fascia media ed entry-level, da cui la Cina si è gradualmente ritirata nell'ultimo decennio nel contesto dell'aumento dei salari.
Paesi che non sono stati risparmiati dalla sospensione delle produzioni cinesi. Quello che ci aveva spiegato a febbraio Rubana Huq, leader dell'associazione produttori ed esportatori di abbigliamento del Bangladesh (BGMEA). “Per quanto riguarda la maglieria, siamo autonomi all'85%, contro il 7-10% che facciamo venire dalla Cina. Per quanto riguarda i tessuti, operiamo solo al 60% con tessuti locali; dunque ci appoggiamo per il 40% sulle importazioni, almeno la metà delle quali proviene dalla Cina. Dobbiamo essere prudenti”.
Una situazione in cui potrebbero trovarsi anche i façonisti europei che si riforniscono da questi Paesi. L’India e il Pakistan sono il terzo e il quarto fornitore di tessuti dell’UE, con rispettivi 2,7 e 2,6 miliardi di euro di merci spedite verso il Vecchio Continente nel 2019. Mentre il Bangladesh è al 12° posto in questo ambito di mercato, con la cifra inferiore di 409 milioni di euro di tessuti inviati in Europa l'anno scorso.

Sentita giovedì 16 marzo sulla situazione degli industriali del Bangladesh nei confronti dell'imminente epidemia, Rubana Huq fu chiara. “Ho trasmesso una chiara raccomandazione della nostra associazione, per la chiusura (dei siti, ndr.) a seguito dell'annuncio del lockdown da parte del governo”, indica la dirigente. “Ma ci sono fabbriche che producono dispositivi di protezione individuale e altri prodotti essenziali, a cui i loro acquirenti hanno chiesto di rispettare rigorosamente le scadenze pena la cancellazione degli ordini, e che sono libere di continuare a operare. Come associazione, possiamo solo fare raccomandazioni e pertanto l'abbiamo fatto”.
“Secondo me ci vorranno almeno sei mesi prima di ritrovare una certa normalità nell'attività”, stimava lo scorso febbraio il dirigente nell'industria tessile cinese Zhang Tao, che restava particolarmente cauto rispetto al rimettere in funzione i centri di produzione. Una prudenza che oggi viene confermata dal timore di una seconda ondata di contagi sul suolo cinese, e che ancora una volta mette in dubbio la capacità della “fabbrica del mondo” di rifornire i suoi committenti.
Di fronte alla sospensione della produzione cinese, un buon numero di aziende occidentali aveva in serbo dei “Piani B” per le forniture di abbigliamento. Ma molti di questi si basano in gran parte sull'India, il Pakistan, il Bangladesh o la Birmania, chiamati ad essere alternative alla Cina. Le prossime settimane potrebbero quindi essere decisive per il sourcing internazionale di tessuti e abbigliamento.
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