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Versione italiana di
Gianluca Bolelli
Pubblicato il
8 dic 2021
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Come e perché Amazon aumenta i costi per i suoi venditori più piccoli

Versione italiana di
Gianluca Bolelli
Pubblicato il
8 dic 2021

Il marketplace sta abusando della sua posizione dominante per rendere indispensabili delle opzioni che risultano costose per i venditori? È quanto sta affermando l'ILSR (Institute for Local Self-Reliance), ente americano per la promozione dell'economia locale, il quale ha calcolato che ormai il 34% dell’ammontare delle vendite concluse sul portale dell’azienda di Beacon Hill, viene intercettato dallo stesso gruppo statunitense. Una cifra che Amazon contesta.

Shutterstock


Secondo lo studio, la quota captata da Amazon sulle vendite dei venditori terzi sarebbe passata dal 19% nel 2014 al 30% nel 2018, per poi raggiungere il 34% quest'anno. I ricavi del gruppo in termini di costi per la vendita sono così passati da 60 miliardi di dollari a 121 miliardi di dollari in due anni. Nel 2020, i vari marketplace dell’azienda dello stato di Washington hanno generato 24 miliardi di dollari di profitti, passando davanti ai 13,5 miliardi generati dall'attività di Amazon Web Services (AWS) e dalle sue offerte cloud, che sono state a lungo il suo principale generatore di utili, mentre molte altre sue attività erano in perdita.
 
Amazon contesta questa cifra del 34%. In una risposta indirizzata al sito specializzato TechCrunch, il gruppo definisce il rapporto dell’ILSR come “impreciso”, affermando che il documento di 26 pagine “confonde le commissioni di vendita di Amazon con i (suoi) servizi complementari opzionali”. Il gruppo sostiene inoltre che i propri costi di vendita rimangono competitivi rispetto ad altri rivenditori online e che il rapporto mescola queste cifre.

Servizi supplementari opzionali che non sarebbero più veramente tali, e che sono al centro del problema, secondo il rapporto. Moltiplicando le evidenziazioni e i vantaggi concessi ai venditori disposti a investire nella pubblicità e nei riferimenti interni di Amazon, il gruppo avrebbe spinto i propri venditori ad investire in un numero crescente di opzioni per sperare di distinguersi nelle ricerche.
 
Commissioni, pubblicità, spese logistiche...
 
Dal suo lancio nel 2000, Amazon pratica commissioni del 15% e non le ha mai abbassate man mano che il portale è cresciuto. Per esistere, i venditori si rivolgono quindi all'offerta pubblicitaria del sito, che dovrebbe generare 27 miliardi di dollari quest'anno. Di cui 17 miliardi provenienti da venditori di terze parti, contro i 9 miliardi del 2020. I venditori cederebbero mediamente il 4,6% delle loro vendite in cambio di queste promozioni, contro l'1,1% del 2016. Senza pubblicità i prodotti non spariscono solamente dalle pagine di ricerca interna: perdono anche il naturale riferimento sui motori di ricerca di terzi, in quanto Amazon prende il numero di prodotti venduti come criterio di evidenziazione.

Le commissioni pagate dai venditori stanno crescendo a un ritmo accelerato - ILSR


Vengono poi gli investimenti logistici presso Amazon, tramite il suo programma FBA, o Fulfillment by Amazon. Nel 2016, il 56% dei 10.000 venditori top del sito ha utilizzato questo programma di supporto per lo stoccaggio e la spedizione. Ora sono l'84%, secondo Marketplace Pulse. L’FBA è la porta d’ingresso per vedere i propri prodotti offerti nel programma “Prime”, con consegna espressa gratuita. Un asset sempre meno opzionale, perché sta diventando un criterio primario per i clienti. In particolare negli USA, dove due terzi delle famiglie hanno un account Prime. E, in caso di concorrenza tra venditori per lo stesso prodotto, il sito pone prioritariamente gli aderenti all’FBA come venditori predefiniti.
 
Ma questi vantaggi hanno un prezzo. Tra il 2013 e il 2016, i prezzi di stoccaggio per i venditori terzi sono aumentati del 69%. Poi del 41% tra il 2016 e il 2020. A questo si aggiungono le spese di spedizione. Per un set misto di 34 prodotti, questi sono aumentati del 34% tra il 2013 e il 2020. Si passa dal +22% per un'amaca al +138% per una cover del telefono, passando per un +72% per una bambola.
 
Un monopolio che impedisce l'equilibrio dei prezzi
 
Per l'ILSR, in un normale mercato competitivo, i venditori compenserebbero questi aumenti dei costi aumentando i loro prezzi su Amazon. Abbassandoli poi su altri portali, per esercitare così una pressione su Amazon stesso. Ma il gruppo della provincia di Seattle ha trovato una contromisura: se Amazon rileva che un venditore offre prezzi più bassi altrove, i suoi prodotti non possono più comparire nelle ricerche, perdono il badge “Prime” e persino il pulsante “Acquista ora” (acquisto con un clic). L'effetto conseguente è che in questo modo Amazon esercita un controllo sui prezzi praticati sugli altri marketplace. Ben oltre la quota di mercato del 50% che ad esempio il portale intercetta negli Stati Uniti.

ILSR


“Costringendo i venditori ad aumentare i loro prezzi su altri siti in modo che corrispondano a quelli di Amazon, il gigante della tecnologia può continuare ad aumentare le commissioni dei venditori senza subire ripercussioni”, deplora il rapporto. “Sotto il peso di queste commissioni, la maggior parte dei venditori non riesce a creare attività sostenibili e durature. Come i magazzini di Amazon, che vedono susseguirsi i lavoratori, il marketplace sperimenta un costante ricambio dei venditori, perché le piccole imprese, che cercano disperatamente di accedere al mercato online, provano e falliscono”, per l’ILSR, che sottolinea inoltre la crescente concorrenza asiatica: “Nel tempo, Amazon si è sempre più rivolta ai venditori basati in Cina, che ora rappresentano quasi la metà dei primi 10.000 venditori”.
 
Prima della crisi, un altro aspetto della strategia di Amazon aveva attirato l'attenzione dei professionisti, soprattutto nel settore della moda: i marchi di proprietà del portale. Perché i brand che pagano la loro presenza sul sito non solo si fanno concorrenza tra loro, devono anche competere con quelli creati da Amazon, in fasce di prezzo comprese tra entry level e media gamma. Alla fine del 2019, Amazon possedeva già un centinaio di marchi di moda di sua proprietà in vari segmenti.

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