Birmania: varie fabbriche tessili al centro delle proteste
Il potere militare birmano ha introdotto la legge marziale in sei aree con fabbriche a capitale cinese, e che operano principalmente nell’universo del tessile-abbigliamento. Pechino è sospettato dai manifestanti di sostenere il colpo di stato.

“La Cina esorta il Myanmar ad adottare nuove misure efficaci per porre fine a tutti gli atti di violenza, punirne gli autori conformemente alla legge e garantire la sicurezza della vita e dei beni delle aziende e del personale cinese in Myanmar”, ha comunicato all’inizio della settimana l’ambasciata cinese in Myanmar, che ha confermato come diverse fabbriche a capitali cinesi siano state il bersaglio di gruppi di persone che le hanno vandalizzate e hanno dato fuoco ai loro locali.
A Rangoon, i quartieri di Hlaingthaya e Shwepyitha sono stati posti sotto legge marziale durante il fine settimana, presto raggiunti dalle zone di North Dagon, North Okkalapa, South Dagon e Dagon Seikkan. La giornata di domenica 14 marzo sarebbe stata una delle più sanguinose dal colpo di stato, secondo la CNN, che parla di almeno 38 morti fra i manifestanti, sui 126 morti identificati dopo l'azione militare. Sebbene la Cina non abbia condannato direttamente il colpo di stato, ha comunque sostenuto l’intervento delle Nazioni Unite, condannando fermamente “le violenze contro manifestanti pacifici” e chiamando l'esercito ad “esercitare il più grande controllo” possibile.
Il colpo di stato non mancherà di determinare conseguenze a breve e medio termine sull'attività birmana legata ai settori dell’abbigliamento e delle calzature. “La situazione dei Rohingya e i problemi dei diritti umani in Myanmar hnno reso gli investimenti meno attraenti sia per le aziende occidentali che per la Cina”, spiegava già in febbraio Lucas Myers, analista di Woodrow Wilson International. Dal canto suo, il presidente della American Apparel & Footwear Association, Stephen Lamar, indicava che numerosi marchi dell’organizzazione sono in collegamento con la Birmania, e trovano questo colpo di stato “profondamente inquietante”.
E le conseguenze non hanno tardato ad arrivare. All’inizio di marzo il gruppo svedese H&M ha annunciato che sospenderà gli ordini dai suoi fornitori birmani, ben 45 secondo la lista messa a disposizione dalla società. Il 15 marzo è toccato all’italiano OVS, arrivato a ruota del connazionale Benetton, comunicare che anch’esso sospenderà i passaggi di ordini in Birmania. Il giapponese Fast Retailing (Uniqlo) per ora ha solamente comunicato che due fabbriche di un suo partner locale sono state incendiate a Rangoon. L’irlandese Primark è invece al centro di una polemica scatenata dal Guardian. Il quotidiano riferisce che, il 18 febbraio, un fornitore del marchio avrebbe sequestrato i suoi mille dipendenti per impedire loro di unirsi alle manifestzioni di protesta. Primark ha annunciato che avvierà un'indagine e sospenderà il suo sourcing nel Paese.

Il fatto che delle fabbriche cinesi insediate in Birmania siano state prese di mira rientra in un sentimento preesistente di sfiducia contro la Cina. Dopo che l’Impero di Mezzo verso la fine degli anni Zero del 2000 decise di aumentare il salario minimo praticato, diversi industriali cinesi avevano cominciato a delocalizzare alcune produzioni verso i Paesi limitrofi a basso costo. La Birmania, allora in piena fase d’industrializzazione, e forte di salari bassi, rappresentava dunque un’ottima scelta alternativa. Dando però così origine alla paura di una messa sotto tutela economica cinese. Ma la Cina non fu la sola a seguire questa logica: Singapore le passò davanti nel 2014 in termini di investimenti, in ragione dei massicci fondi investiti dagli Stati Uniti attraverso la città-stato.
E la Birmania non ha deluso. In meno di 10 anni, il Paese asiatico è diventato, per esempio, il nono fornitore d’abbigliamento dell’Unione Europea, con 2,4 miliardi di dollari di merci nel 2019, dato in crescita del 43%. La Birmania ha persino strappato l'ottavo posto al Marocco in occasione del difficile esercizio 2020. Il mercato del tessile-abbigliamento pesa ormai da solo il 65% delle esportazioni del Paese. Il mercato locale impiegherebbe 1,5 milioni di birmani e dovrebbe superare rapidamente la soglia dei 2 milioni nei prossimi anni. Spingendo alcuni osservatori a stimare che i gruppi di operai tessili oggi svolgano un ruolo chiave nella strutturazione della contestazione birmana. Un Eldorado per il comparto tessile mondiale ormai compromesso?
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