23 feb 2022
Big della moda oltre i livelli pre-covid nel 2021, ma non in Italia
23 feb 2022
Le big del fashion si lasciano alle spalle il covid e tornano a macinare vendite, spinte da Cina e Usa, mentre l’Europa insegue. A scattare la fotografia è l’Area Studi Mediobanca nel nuovo report sul sistema moda che aggrega i dati finanziari di 70 multinazionali e 134 gruppi italiani del settore.
Dopo nove mesi col vento in poppa (+32% di giro d’affari), i grandi gruppi della moda chiudono il 2021 in crescita del 28% sul 2020 e del 10% sui livelli pre-crisi. Continua la corsa dell’online, che aveva accelerato durante la pandemia (+60% nel 2020) e archivia l’anno con un +25%, raggiungendo oltre un quarto del fatturato aggregato.
Nel 2020, i primi 70 fashion player mondiali (con un giro d’affari sopra il miliardo) hanno fatturato complessivamente 379 miliardi di euro (-13,8% sul 2019 e +4,9% sul 2016), di cui il 55% generato dai gruppi europei e il 34% dai nordamericani. Fra i top 30 europei, l’Italia è il Paese più rappresentato con le sue sette big, mentre la Francia si aggiudica il primato per giro d’affari con una quota del 38% del fatturato aggregato.
A guidare la classifica è la francese Lvmh (44,7 miliardi), seguita da Nike (36,3 miliardi), Inditex (20,4 miliardi), Adidas (19,8 miliardi), H&M (18,6 miliardi), Fast Retailing (15,9 miliardi) ed EssilorLuxottica (14,4 miliardi). Tra gli italiani, primeggia Prada (2,4 miliardi), al 38esimo posto in classifica. In base alla redditività (con l’ebit margin aggregato contratto al 9,7% dal 13,3% del 2019), Hermès si conferma al primo posto (ebit margin al 32,2%), davanti a Lvmh-divisione Fashion (30,5%), Moncler (25,6%) e Kering (23,9%).
Per i top player italiani del settore, con un fatturato superiore a 100 milioni di euro, il ritorno ai livelli pre-covid è atteso nel 2022. Il 2021 dovrebbe chiudersi con un giro d’affari in crescita del +22% rispetto ai 49,8 miliardi dell’anno precedente. Il 2020 è terminato con una contrazione del 22,8% sul 2019 e del 9,7% sul 2016, con il 66,6% del fatturato complessivo proveniente dall’estero. L’abbigliamento ha generato il 43,9% dei ricavi aggregati, seguito da pelli, cuoio e calzature (27,1%). Nel biennio covid 2019-20, maglia nera al tessile (-34,6%), mentre la gioielleria ha retto retto meglio di altri (-19,8%). In sofferenza anche la redditività con l’ebit margin aggregato in calo all’1,8% (dal 7,8% del 2019). Gioielleria e tessile tra i comparti più redditizi (ebit margin, rispettivamente, del 6,9% e 3,2%). Giù anche l’occupazione, con circa 15.400 addetti in meno (-5,5% sul 2019, ma +6,0% sul 2016), per una forza lavoro totale di quasi 265mila unità a fine 2020.
Delle 134 grandi aziende moda della Penisola, 59 hanno una proprietà straniera che controlla il 38,5% del fatturato aggregato (il 19,1% è francese, fra cui Kering con l’8,7% e Lvmh con il 6,4%). L’impatto della crisi è stato più evidente per le imprese a controllo italiano rispetto a quelle a controllo estero: sia in termini di ridimensionamento del giro d’affari (-23,3% vs -22,0%), che in termini di contrazione della reddività (-6,5 p.p. vs -5,0 p.p. di ebit margin), pur rimanendo lievemente più profittevoli le prime (ebit margin all’1,9% vs 1,7%).
A livello globale, la quota di donne sul totale della forza lavoro delle 70 multinazionali del settore è mediamente pari al 64,3%, ma scende al 43,0% nei ruoli direttivi e al 32,7% a livello di Cda. I gruppi statunitensi hanno più consiglieri donna (37,9%) rispetto a quelli europei (32,5%). Ampiamente sopra la media europea si collocano i player francesi con una quota di donne nel board pari al 41,7%. I gruppi italiani si fermano al 27,5%. Le meno rappresentate sono le donne giapponesi: solo una ogni dieci consiglieri.
Dall’analisi dei bilanci di sostenibilità 2020, emerge la crescente attenzione alle tematiche Esg da parte dei grandi gruppi del lusso, con quelli Usa mediamente più sostenibili rispetto a quelli europei e asiatici. A livello globale sono diminuiti i consumi idrici (da 350 m3 di acqua per un milione di fatturato nel 2019 a 304 nel 2020), le emissioni di CO2 (da 1.528 tonnellate di CO2 per un milione di fatturato nel 2019 a 1.512 nel 2020), i rifiuti prodotti (da 3,0 tonnellate per un milione di fatturato nel 2019 a 2,7 nel 2020) ed è aumentato il ricorso all’energia elettrica rinnovabile (dal 49,9% nel 2019 al 57,6% nel 2020, era al 42,6% nel 2018).
Sul fronte della supply chain, i fornitori dei maggiori player del fashion sono localizzati per il 61% in Asia, per il 28% in Europa e per l’8% in Nord America, con punte di oltre il 90% in Asia per il fast fashion e l’abbigliamento e calzature sportive. Mediamente, oltre un quarto dei fornitori dei gruppi europei della moda ha sede in Italia, con picchi di oltre l’80% nella fascia alta del mercato.
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