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Versione italiana di
Gianluca Bolelli
Pubblicato il
20 feb 2023
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Bangladesh: un'industria tessile in trasformazione dieci anni dopo il Rana Plaza

Versione italiana di
Gianluca Bolelli
Pubblicato il
20 feb 2023

Il 24 aprile 2023 sarà il 10° anniversario dal crollo della fabbrica tessile delll’edificio Rana Plaza, che ha provocato 1.134 morti e più di 2.500 feriti. Di fronte alla pressione popolare e alle ripercussioni della vicenda sui marchi suoi clienti, negli ultimi dieci anni il Bangladesh ha moltiplicato le iniziative di responsabilità sociale e ambientale. Oggi, affermandosi come uno dei comparti tessili più sicuri, l'industria locale si scontra tuttavia con marchi non sempre disposti ad accettare gli aumenti di prezzo legati al miglioramento delle condizioni di produzione.

Il deputato del Bangladesh Shafiul Islam e Faruque Hassan, presidente del BGMEA, presso l'ambasciata del Bangladesh in Francia, lo scorso 13 febbraio - MG/FNW


“Vedere per credere!”, ripete Faruque Hassan. Il presidente della BGMEA (Bangladeshi Garment Manufacturers and Exporters Association) di passaggio a Parigi, in occasione della serie di conferenze organizzate dall'OCSE sul dovere di vigilanza nella moda.

Per il rappresentante del settore, incontrato in un salotto dell'ambasciata del Bangladesh sotto l'occhio penetrante di un ritratto dello sceicco Mujibur Rahman (padre fondatore del Bangladesh), l'immagine dei produttori bengalesi sta cambiando. E questo grazie alle crescenti visite di professionisti e addetti ai lavori occidentali, per i quali il Bangladesh si è affermato dopo la Cina come la seconda “fabbrica del mondo”.

La posta in gioco legata alla sua immagine è alta per il Bangladesh nel suo complesso: il tessile e l'abbigliamento rappresentano il 10% del suo prodotto interno lordo. Le circa 4.000 fabbriche tessili del Paese impiegano 4,4 milioni di lavoratori. L'inarrestabile dipendenza del Paese dall'abbigliamento significa che questo settore genera oltre l'80% delle esportazioni nazionali. Una realtà che, quando le etichette dei grandi marchi occidentali sono state trovate mentre si dissotterravano i cadaveri del Rana Plaza, ha abbinato alle questioni sociali portate alla luce dal dramma un elemento di emergenza economica nazionale.
 
Dramma nazionale e sfida di filiera

“Il Rana Plaza è stato un vero e proprio dramma nazionale, che ha fatto capire a tutti che le cose dovevano cambiare”, ha detto Shafiul Islam, che ha presieduto il BGMEA ed ora è deputato del Bangladesh nel decimo collegio elettorale di Dacca, la capitale. “In 90 giorni, le leggi sul lavoro sono state modificate in parlamento, colmando delle zone grigie. È stata introdotta la tolleranza zero per l'integrità strutturale e la sicurezza elettrica. Da allora abbiamo investito miliardi, con il sostegno dell'Unione Europea e degli Stati Uniti”.

BGMEA


Per il deputato del Bangladesh, tuttavia, questo sostegno ha trovato molto rapidamente un limite. Già nella primavera del 2013 i produttori denunciavano il comportamento contraddittorio dei grandi marchi che comunicavano ampiamente sui miglioramenti richiesti ai loro fornitori del Bangladesh. Mentre, lontani dagli obiettivi dei fotografi, i rappresentanti commerciali di quegli stessi marchi continuavano a negoziare al ribasso i prezzi dei loro ordini. Un grande divario che continuerebbe ancora oggi.
 
“Tutti nel settore riconoscono il grande lavoro di trasformazione svolto dalla filiera da dieci anni a questa parte, ma appena si parla di soldi si ricade su brutali questioni di competitività”, deplora il parlamentare bengalese, il quale spiega che molte aziende sarebbero pronte a spostare i loro ordini in Mongolia, o addirittura in Afghanistan, al minimo aumento di prezzo. “Questo comportamento deve cambiare! Dieci centesimi in più al pezzo possono fare la differenza, quando si vuole trasformare una filiera. Quello che i brand dicono di volere”.

Condizioni di lavoro e salari minimi

Per i lavoratori tessili del Bangladesh, il Rana Plaza ha avviato un processo che ha portato a due aumenti del salario minimo, effettuati nel 2013 e nel 2018. Gli aumenti minimi annuali sono ora stabiliti per legge, portando l'aumento del salario minimo dal 2010 al 381%, secondo la BGMEA, Questo ora si attesta a 8.000 taka (70 euro). Ed attualmente è oggetto di nuove rivendicazioni da parte dei sindacati, che chiedono un aumento a 23.000 taka (202 euro), soprattutto in considerazione dell'inflazione che colpisce il Paese.

Il Rana Plaza aveva anche portato all'adozione di nuove leggi nel 2015, volte a tutelare i diritti dei lavoratori, mentre sono state istituite regolari trattative di filiale ed è stata creata una nuova struttura di consultazione che riunisce industriali e sindacati per ricostruire e risolvere i casi, una volta denunciati i problemi. Chiamato ReadyMade Garment Sustainably Council (RASC), questo organismo è guidato da Miran Ali.

Shovon Islam, CEO di Sparrow Group of Industries, presso l'Ambasciata del Bangladesh in Francia, il 13 febbraio scorso - MG/FNW


Il settore si è inoltre impegnato a sostenere l'emancipazione delle lavoratrici bengalesi, maggioritarie nelle fabbriche locali, in particolare attraverso la formazione dei futuri dirigenti. Una partnership avviata con l'Asian University for Women ha già permesso di formare 90 future donne dirigenti del settore. Essa prende atto di una più generale e graduale trasformazione del modello familiare bengalese. “In precedenza, c'erano da 6 a 8 persone per famiglia, con una persona sola che lavorava”, spiega Faruque Hassan. “Le famiglie sono ormai composte da più di 3 o 4 persone, con due persone che lavorano, grazie a un migliore accesso al mondo del lavoro per le donne”.
 
Aumenti salariali che non mancano di incontrare qualche resistenza da parte degli industriali locali, che temono che questi costi possano minare la competitività del Paese. Con il timore di fondo di uno scenario già visto in Cina, dove gli aumenti salariali hanno allontanato le produzioni entry-level. E soprattutto verso il Bangladesh, allora il principale beneficiario di questo gigantesco spostamento nell'offerta tessile.
 
“Non abbiamo timori su questo punto perché, con gli investimenti in formazione e macchine effettuati per dieci anni, abbiamo guadagnato in efficienza, e siamo in grado di produrre di più con lo stesso numero di dipendenti”, spiega l'industriale Shovon Islam, CEO del gruppo Sparrow.

“Questo vale per i prodotti di base gamma, ma sta gradualmente diventando vero anche per quelli di fascia alta”, insiste il dirigente. “Vedrete scritto Made in Bangladesh sui prodotti Hugo Boss e Mango, così come su quelli di Inditex, Banana Republic o J-Crew. È questa qualità del lavoro che fa sì che, in un paese tessile come l'India, il 60% degli abiti venduti provenga effettivamente dal Bangladesh”.
 
Marchi talvolta scorretti e GSP
 
Secondo fornitore di abbigliamento dell'UE, quarto fornitore per gli Stati Uniti, il Bangladesh ha recentemente inasprito i toni nei confronti dei committenti. Se il settore tessile dal 2021 ha riguadagnato e superato i livelli di export pre-crisi, uno studio realizzato dall'associazione Transform Trade, condotto tra 1.000 fabbriche con l'Università di Aberdeen e il Center for Global Development, ha recentemente evidenziato alcune pratiche sleali da parte di marchi clienti.

L'Asian University for Women di Dacca - BGMEA


“I brand hanno dimostrato di potersi comportare in modo molto irregolare, con cancellazioni di ordini o rinegoziazioni unilaterali degli stessi”, conferma Shafiul Islam, che non nasconde un certo fastidio per alcuni comportamenti sprezzanti. “Tuttavia, per poter migliorare la filiera nel suo complesso, la cooperazione deve essere una realtà da entrambe le parti dei tavoli negoziali”.

La crisi sanitaria ha portato con sé un effetto notevole per i lavoratori: il pagamento degli stipendi tramite bonifici o applicazioni mobili, mentre fino ad allora il versamento era tradizionalmente effettuato in contanti. Un'evoluzione determinata, nei primi mesi della crisi, dal pagamento degli stipendi da parte del governo stesso, e dalla volontà di pagarli rispettando le distanze sanitarie richieste.
 
L'industria bengalese tiene d'occhio anche l'Unione Europea, che intende sviluppare il proprio sistema di preferenze generalizzate (noto come GSP), un vantaggio doganale alle porte dell'UE di cui attualmente il Bangladesh beneficia. “Ciò avviene in un momento in cui siamo anche preoccupati per l'inflazione che si sta diffondendo in Occidente, e per gli effetti che ciò potrebbe avere sui budget dedicati all'abbigliamento”, spiega Faruque Hassan. “Ecco perché ci sembra importante, in un momento come questo, che l'Europa non vanifichi gli sforzi del Bangladesh privando il Paese di benefici preziosi come il GSP. Non chiediamo all'Europa un trattamento di favore, ma un sostegno che tenga conto degli investimenti fatti dal nostro settore, e del contesto difficile che si è manifestato per i nostri committenti occidentali”.

Fabbriche verdi e riciclaggio

Per convincere i committenti, il Bangladesh ha anche puntato su fabbriche “verdi”. Circa 187 strutture locali sono state incoronate come tali dall'USGBC (US Green Building Council), di cui 110 hanno ricevuto la medaglia d'oro, mentre 10 società del Bangladesh si trovano ora nella top 12 società elencate dall'ente. Investimenti che si inseriscono nella volontà di ridurre le emissioni del settore del 30% entro il 2030, in particolare attraverso il crescente utilizzo dell'energia solare nelle fabbriche.

BGMEA


Le macchine stesse vengono modernizzate, sempre con la volontà di mostrare l'impegno del settore. “Avremmo potuto acquistare macchine prodotte in Cina a un prezzo inferiore, ma abbiamo scelto di acquistare le attrezzature più moderne in Europa”, ha affermato Faruque Hassan. Il che ha determinato anche investimenti in filatura e tessitura, per rendere il comparto meno dipendente dalle importazioni di materiali da India, Indonesia, Corea del Sud e Vietnam. “Dovremo ancora far venire da noi cotone e fibre (da India, Asia centrale, Stati Uniti, Egitto e Pakistan, ndr.), ma avremo filati e materiali nostri”.

Il BGMEA punta anche sul riciclaggio. La federazione sostiene il crescente riutilizzo degli scarti di produzione. E questo è solo un primo passo. Il presidente della federazione evoca il suo desiderio di poter, a lungo termine, importare indumenti usati da diversi Paesi per farne una nuova fonte di materia prima per il suo settore. Un'ambizione che andrà a competere con le identiche aspirazioni manifestate dai comparti europei e americani.

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