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Versione italiana di
Gianluca Bolelli
Pubblicato il
25 ago 2021
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Bangladesh: i marchi prorogano di due anni l'Accordo sulle condizioni di lavoro

Versione italiana di
Gianluca Bolelli
Pubblicato il
25 ago 2021

I dettaglianti internazionali che si riforniscono in Bangladesh hanno concordato di prorogare per due anni gli accordi legali che li rendono parzialmente responsabili in caso di mancato rispetto degli standard di sicurezza nei siti di produzione. Il Ready-Made Garments Systainability Council (RSC) continuerà così ad occuparsi dell’attuazione del cosiddetto “Accordo” stipulato dai marchi in seguito alla tragedia omicida del Rana Plaza nel 2013.

Shutterstock


L'accordo sulla “Sicurezza antincendio e degli edifici” in Bangladesh comprende circa 200 rivenditori, tra i quali i gruppi H&M, Inditex (Zara), Fast Retailing (Uniqlo), Adidas e Hugo Boss. È la controparte europea dell'Alliance for Bangladesh Worker Safety, lanciata contestualmente da brand prevalentemente americani, e che aveva preferito passare il testimone nel 2018, ritenendo di aver compiuto la sua missione.
 
Una situazione che ha rafforzato per i lavoratori e le aziende del Bangladesh l'importanza di mantenere attivo l'Accordo. Quest'ultimo avrebbe consentito di ispezionare e mettere in sicurezza circa 1.600 siti industriali tessili locali che impiegano quasi due milioni di lavoratori. È nel 2018 che l'Accordo ha iniziato a trasferire le proprie responsabilità al RSC, che riunisce anche sindacati, produttori industriali e marchi. Questi ultimi si sono ora impegnati fino al 2023 ad assumersi le proprie responsabilità legali qualora non rispettino le regole dell'Accordo, che prevede in particolare di cessare le collaborazioni con i siti ritenuti pericolosi per i dipendenti.

Più ufficiosamente, questo “dovere di vigilanza” non meglio definito ha, per gli industriali, un altro effetto positivo. I marchi firmatari tenderebbero così a ridurre la pressione sui prezzi dei loro ordini, per non indurre i propri produttori a ridurre gli investimenti nella sicurezza. Una situazione che ha assunto un significato davvero completo in occasione della crisi sanitaria, che ha fatto crollare gli ordini occidentali nel 2020, per poi rallentare la produzione stessa durante i rimbalzi dell'epidemia nel Paese.

Shutterstock


Il 23 luglio scorso, il Bangladesh ha iniziato un nuovo lockdown, il quale ha comportato chiusure di stabilimenti che, sottolineano gli industriali, sono avvenute integralmente nel periodo giugno-agosto, che è il più importante per le esportazioni di abbigliamento, perché vi si concentrano non meno del 40% delle spedizioni annuali. Una situazione che ha spinto la Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association (BGMEA) a temere che Cina, India o Vietnam le sottraggano quote di mercato.
 
Sebbene gravemente colpito dalla crisi sanitaria, il Bangladesh è comunque rimasto il secondo fornitore di abbigliamento dell'Unione Europea nel 2020, nonostante una contrazione del 17% legata agli annullamenti di ordini, che ha portato il loro valore complessivo a 14,6 miliardi di euro, ben al di sotto dei 25,7 miliardi di euro esportati dalla Cina.

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