14 mag 2013
Bangladesh: i marchi e le nazioni hanno deciso di agire?
14 mag 2013
Con un bilancio arrivato a 1.124 morti nel weekend scorso, il crollo di un edificio del Bangladesh che ospitava alcuni laboratori tessili comincia a provocare delle reazioni. Dopo che numerosi brand hanno dovuto riconoscere che producevano sul posto, questo sembra essere diventato il momento delle prese di posizione e delle pressioni mediatiche e macroeconomiche.
H&M ha annunciato di aver firmato il Fire and Building Safety Agreement. Un documento realizzato dalle ONG IndustriAll e Uni Global Nation, che finora era stato sottoscritto solamente dal gruppo americano PVH (Tommy Hilfiger, Calvin Klein…) e dal distributore tedesco Tchibo. L’adesione di H&M, uno dei tre giganti mondiali dell'abbigliamento insieme a Inditex (Zara) e a Gap Inc, potrebbe portare molte altre aziende a sottoscriverlo. E' quanto si aspetta soprattutto Dorothée Kellou, responsabile della missione per l'ONG Peuples Solidaires e membro del collettivo internazionale 'Ethique sur l'étiquette'.
"Ce ne vorrebbero almeno quattro [di marchi, ndr.] perché entri in vigore", ha precisato quest'ultima al quotidiano “Libération”. L’occasione in particolare per puntare il dito contro le misure non molto incisive prese individualmente da ciascun marchio, fra la hotline anonima riservata ai lavoratori, annunciata da Adidas, o la diffusione di filmati sulla prevenzione degli incendi negli impianti privi di estintori.
Tra le ragioni che possono spiegare il disinteresse dei grandi marchi per il Fire and Building Safety Agreement figura la costituzione di un fondo comune, realizzato da vari sponsor, per finanziare delle verifiche indipendenti. Inoltre, esso implica che gli stessi datori di lavoro non potranno più accontentarsi di subire controlli finanziati direttamente da loro, e di cui consumatori e ONG non vedono i risultati se non in alcuni casi rari.
Sotto pressione da parte della comunità internazionale
Ma se i brand tardano a fornire l'attesa reazione ai recenti avvenimenti, è vero anche che le classi politiche europee e americane potrebbero benissimo farlo al loro posto. Il Commissario Europeo al Commercio Karel De Gucht e l'Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri Catherine Ashton stanno attualmente preparando un summit fra i dettaglianti europei che si riforniscono in Bangladesh. In contemporanea, l’Unione Europea minaccia Dacca di privare il Paese dei suoi vantaggi negli scambi commerciali con l'Europa.
In effetti, il Bangladesh si avvantaggia del Generalised System of Preferences (GSP) europeo, dispositivo che gli consente di esportare a basso costo verso il Vecchio Continente. Una vera leva finanziaria, che Bruxelles ha seriamente intenzione di usare per spingere le autorità locali a adottare una politica d'urgenza per migliorare le condizioni di lavoro della sua industria tessile.
Il messaggio è ancor più chiaro: il Bangladesh potrebbe anche perdere il suo accesso preferenziale al mercato americano. Un processo che dovrebbe richiedere diversi mesi, e che fa seguito all'assassinio l'anno scorso di un attivista locale difensore dei diritti dei lavoratori. Quest'ultimo si batteva per l'istituzione di una vera e propria politica di sicurezza nelle fabbriche. A seguito dei recenti avvenimenti, le cui immagini hanno fatto il giro del mondo, la decisione di Washington potrebbe diventare più rapida, secondo la stampa locale.
Chi pagherà?
Secondo produttore di abbigliamento nel mondo, il Bangladesh dovrà quindi dimostrare il suo impegno in tal senso nelle prossime settimane. La perdita di clienti internazionali potrebbe infatti porre un serio problema alla sua economia nazionale, con il tessile-abbigliamento che pesa almeno per l'80% sulle esportazioni, per un valore di 29 miliardi di dollari l'anno scorso.
Comunque, i leader del settore tessile del Bangladesh sembrano aver capito bene di che portata sia il problema e quanto grande sia la posta in gioco. “E' un momento cruciale per noi”, ha dichiarato all’AP Atiqul Islam, presidente della Bangladesh Garment Manufacturers and Exporters Association. “Faremo del nostro meglio per migliorare le misure di sicurezza nelle fabbriche. Ci aspettiamo dai nostri committenti e compratori che siano al nostro fianco e ci aiutino a superare la crisi attuale. Questo non è il momento di allontanarsi da noi. Ciò continuerebbe a penalizzare il settore e molte persone perderebbero il lavoro”.
Un appello lanciato agli imprenditori a sostenere questi loro fornitori e subfornitori che solleva la questione più problematica, riguardante l'evoluzione delle condizioni di produzione: chi ne pagherà il conto? I produttori, già costretti a tagliare i costi per continuare ad attrarre le imprese appaltatrici? I marchi internazionali, già tentati da altri Paesi più competitivi e meno visti con negatività dai media? O i consumatori americani ed europei, il cui livello di consumi è già più che bloccato? Nell'attesa di una risposta, è stata la classe operaia del Bangladesh ad aver pagato il prezzo di gran lunga maggiore di questa storia: 1.124 vite.
Matthieu Guinebault (Versione italiana di Gianluca Bolelli)
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