Ambiente: l'e-commerce è meno inquinante delle boutique di moda?
Per lo stesso prodotto, l'impatto di CO² di un acquisto in negozio sarebbe 2,3 volte maggiore di quello di un acquisto online, secondo uno report realizzato dallo studio Oliver Wyman, pubblicato da E-commerce Europe. L'analisi, svolta in Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito, sottolinea nel contempo il particolare impatto del commercio di abbigliamento sulle emissioni di anidride carbonica.

L’indagine si è focalizzata esclusivamente sulle emissioni di CO², e tiene conto del trasporto dal magazzino al consumatore (compreso il viaggio fino al negozio), del packaging, e del consumo energetico degli edifici e degli strumenti informatici relativi alle vendite fisiche e online. Su tre categorie di prodotti studiate (abbigliamento, libri e prodotti elettronici) nei cinque Paesi target, risulta che un acquisto in negozio determinerebbe una media di 4.052 grammi di CO², contro gli 879 grammi dell'acquisto online.
La varietà delle reti di fornitura e le differenze nella topografia creano naturalmente disparità da una zona all'altra. La Francia mostrerebbe la percentuale di emissioni più bassa per gli ordini online (445 grammi) e pure per le vendite nelle boutique fisiche (2.441 g.). Le cifre peggiori toccano rispettivamente all’Italia per le vendite online (1.020 g.) e alla Spagna per il commercio fisico (3.586 g.). In termini di disparità a seconda dei canali, è il Regno Unito a mostrare lo scarto differenziale maggiore, con il commercio fisico che causa emissioni 6,4 volte superiori all'e-commerce, seguita dalla Francia (5,5 volte).
Per prodotto, la moda è al primo posto nei settori più inquinanti, con una media di 952 grammi di CO² per un acquisto online e 5.505 grammi per un acquisto fisico, ovvero 5,8 volte di più. Le emissioni per la vendita online vanno da 547 grammi in Francia a 1.096 grammi in Italia, mentre le emissioni per il commercio fisico di abbigliamento oscillano fra 2.959 grammi per la Francia e 7.526 grammi per la Germania.
Ovviamente vengono vagliati i diversi fattori di emissioni di CO² dei due canali. Nel commercio fisico, il primo fattore è lo spostamento del cliente verso il punto vendita (66% del totale), davanti al consumo energetico di negozi e magazzini (29%). Si aggiungono poi il minor impatto del trasporto tra il magazzino e il punto vendita (2%) e il consumo di strumenti informatici (3%).

Sul versante dell’e-commerce, dalle emissioni 4,6 volte inferiori, la CO² è principalmente causata dalla consegna dell'ultimo miglio (42%), ben davanti ai consumi energetici degli strumenti informatici (20%) e degli edifici (19%). Il packaging dei trasporti genererebbe il 13% delle emissioni di CO², a cui si aggiunge il 5% legato al trasferimento di un ordine verso il trasportatore.
Ciò non impedisce al commercio elettronico di avere punti su cui migliorare da tenere in considerazione. “La consegna di un pacco su strada a partire da un magazzino che serve l'Europa emette fino a 30 grammi di CO² in più rispetto a una consegna su strada da un deposito nazionale”, sottolinea lo studio, che rileva come il 14% dei casi registrati si riferisca al commercio elettronico transfrontaliero, di cui l'8% all'interno della stessa Europa. Il documento di un centinaio di pagine indica tuttavia che la consegna d’ordini permetterebbe di ridurre da 4 a 9 volte il traffico che il medesimo acquisto determinerebbe se si facesse in negozio.

Negozi in cui l'ottimizzazione dei trasporti dipende in gran parte dalle aziende commerciali. “I prodotti delle grandi imprese si considerano come viaggianti dai magazzini nazionali ai magazzini regionali (in semirimorchi da 40 tonnellate), poi fino ai punti vendita all’interno di autoarticolati (7,5 tonnellate)”, spiega lo studio. “I prodotti destinati ai piccoli negozi sono forniti sotto forma di flusso di riapprovvigionamento e sono considerati pacchi B2B: vengono inviati prima a un ufficio postale da un magazzino nazionale, poi a un negozio tramite un furgone per le consegne (solo poche scatole alla volta)”.
Il fatto che il commercio di moda sia ormai regolarmente additato come uno dei settori più inquinanti, è anche legato alla natura stessa dei suoi negozi, ricorda il rapporto. Secondo Oliver Wyman, i negozi di moda esporrebbero una media di 100 articoli venduti per metro quadrato, vale a dire due volte in meno rispetto alle altre categorie studiate. Di fatto incrementando notevolmente l'impronta di carbonio per prodotto generata nelle loro aree di vendita.
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