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Pubblicato il
11 dic 2013
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'Outlet Italia': in quattro anni finiti all'estero 437 marchi Made in Italy

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Adnkronos
Pubblicato il
11 dic 2013

I gruppi stranieri hanno speso circa 55 miliardi di euro per comprare i marchi italiani. Eurispes e Uil lanciano l'allarme. Da Lamborghini ad Algida, sono molti i marchi italiani venduti, ricomprati, spesso passati da una proprietà all'altra, da un Paese all'altro: sono 437 i passaggi di proprietà dall'Italia all'estero registrati dal 2008 al 2012, secondo le rilevazioni di KPMG, mentre i gruppi stranieri hanno speso circa 55 miliardi di euro per ottenere i marchi italiani.

Bulgari, uno dei marchi del Made in Italy passato sotto bandiera francese


È la storia di molti marchi d'eccellenza nati in Italia, ma che di italiano oggi hanno ben poco. Ad accendere i riflettori sulla vendita di aziende simbolo del Made in Italy, è uno studio di Uil, Pubblica Amministrazione ed Eurispes. Sono state identificate quelle aziende fondate in Italia, simbolo della nostra migliore produzione artigianale e che hanno vissuto momenti di successo e di crisi, fino a cambiare proprietà e bandiera.

Un database che raccoglie una selezione di 130 importanti marchi che soprattutto negli ultimi 20 anni, per motivazioni differenti, hanno registrato cambiamenti nella proprietà. La lettura dei dati raccolti nel database è affrontata prendendo in considerazione le quattro macro aree del Made in Italy: alimentare-bevande (43), automazione-meccanica (16), abbigliamento-moda (26) e arredo-casa (9); sono state registrate altre 36 aziende nella categoria 'altro', riguardanti i comparti della chimica, edilizia, telecomunicazioni, design, energia e gas.

"Molte delle nostre migliori realtà imprenditoriali - spiega Gian Maria Fara, Presidente dell'Eurispes - sono state schiacciate dalla congiuntura economica negativa, unita all'iperburocratizzazione della macchina amministrativa, a una tassazione iniqua, alla mancanza di aiuti e di tutele e all'impossibilità di accesso al credito bancario. L'intreccio di tali fattori ha inciso sulla mortalità delle imprese creando una sorta di mercato 'malato' all'interno del quale la chiusura di realtà imprenditoriali importanti per tipologia di produzione e per know-how si è accompagnata spesso a una svendita (pre o post chiusura) necessaria di fronte all'impossibilità di proseguire l'attività".

"All'interno di un sistema finanziario sempre più immateriale e senza patria - sottolinea Benedetto Attili, Segretario Generale Uil-Pa - diventa ancora più arduo ricostruire l'origine e i percorsi dei capitali impiegati così come dei vari interessi a essi riconducibili. È certo però che questi interessi, il più delle volte, non corrispondano a vere vocazioni imprenditoriali, ma siano organizzati secondo la logica del massimo profitto".

La svendita della nostra rete produttiva, osserva, "ci impoverisce sia dal lato economico - poiché siamo costretti giocoforza a vendere a un prezzo inferiore rispetto a quello reale - sia per la perdita di asset immateriali, a volte di difficile quantificazione economica, perché vengono meno la tradizione, l'esperienza e la storia insita in ciascuna delle aziende di cui ci priviamo. In questo senso, va ricordato che la nostra imprenditoria è fatta di imprese, costruite nel corso degli anni esaltando il concetto di qualità".

Non solo. Sul fronte dell'occupazione, "quello che può accadere è purtroppo che, rilevata un'azienda che prima produceva in Italia, si trovi più conveniente delocalizzare la produzione in nazioni con minor costo del lavoro, meno barriere burocratiche, ma anche normative assai diverse dalla nostra, sia sul piano della sicurezza sul lavoro sia su quello della tutela della salute dei consumatori. Le conseguenze di ciò sono ben note: perdita di posti di lavoro, di personale specializzato e, inevitabilmente, abbandono degli standard di qualità del prodotto".

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