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3 mag 2017
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Alessandro Barberis Canonico: “I giovani rinunciano a 3.000 euro al mese. Non troviamo informatici”

Pubblicato il
3 mag 2017

Vitale Barberis Canonico è il più antico lanificio Italiano. Oggi vanta 1.300 clienti, tra cui tutto il gotha delle griffe e delle sartorie di lusso, e i suoi tessuti sono stati indossati fra gli altri da Gianni Agnelli, George Bush e Hu Jintao. Attivo da 13 generazioni, il colosso tessile biellese da oltre 150 milioni di euro di fatturato possiede un archivio storico dei tessuti di tendenza dall’800 in poi. Eppure fa fatica a trovare informatici su piazza che accettino di guadagnare anche tremila euro mensili.

 


Davanti alle telecamere del massmediologo Klaus Davi, che sta conducendo una inchiesta sul Made in Italy, l’ingegner Alessandro Barberis Canonico, AD del gruppo di Biella, trova incredibile che in un Paese con il tasso di disoccupazione del 40%, ci possano essere giovani che rinunciano a impieghi specializzati che li porterebbero a guadagnare anche 3.000 euro al mese.
 
“Noi a volte vediamo che ci sono stipendi tecnici di primo ingresso, tipo informatici che partono da 3.000 euro al mese netti. Stiamo cercando informatici, perché sviluppiamo i nostri software all’interno. E non riusciamo a trovarli. E partiamo da cifre di quel livello, anche più alte, come primo impiego, perché è difficile trovare un programmatore capace, bravo sul territorio, disposto a venire in questo settore e a raggiungerci a Biella”, sostiene Barberis Canonico.

“Già i nostri figli, ormai irretiti dalla tecnologia, arretrano davanti al termine manifatture. Spaventa infatti il manifatturiero e, secondo me, non è solo un problema nostro. Se uno parla di marketing, comunicazione e vendite, diciamo che è molto più trendy. La vecchia tintoria sporca, piena di macchinari in cui le lavorazioni si facevano a mano, non esiste più. Oggi praticamente gran parte dei prodotti finiti sono ottenuti con l’automazione. Questa è l’immagine che forse noi dovremmo cercare di trasmettere ai ragazzi, a cui è rimasta probabilmente l’immagine dei loro genitori. Risultato? Nei prossimi 5 anni il 20% della forza lavoro andrà in pensione. Sul territorio ci saranno 2.000 figure carenti, che andranno formate. L’Unione Industriale si è già attivata per far fronte a questo problema”, chiosa l’AD.
 
Voce isolata? Non proprio. Dello stesso avviso è l’industriale marchigiano Giovanni Fabiani, a capo dell’omonimo colosso delle calzature: “Questa è la generazione di Facebook e dei telefonini. Ho provato a inserirne diversi nelle nostre fabbriche. Il lavoro passa cosi: per loro non sembra cosi fondamentale. Orlatura? Tagliatura? Specializzazioni che non interessano. Il problema è generazionale, perché se questi ragazzi non cambiano testa, anche noi potremmo in un futuro persino chiudere”.
 
Sulla stessa linea Rodolfo Zengarini, CEO dell’omonimo gruppo che produce scarpe per grossi brandi come Cavalli e Blumarine. “La generazione di Zuckerberg sarà tecnologicamente ferratissima sulle nuove teconolgie, ma ha sempre lo sguardo fisso sull’orario di lavoro. Ed è grazie anche alla politica, che alimenta illusioni e magari le finanzia, che si coltiva il disprezzo per l’artigianato. E questo è il risultato”.
 
Conferma Bachisio Ledda a capo della compagnia di posta privata City Poste Payment: “I ragazzi italiani? Per loro fare i postini è una bestemmia. Vogliono creare tutti le start up, magari finanziate dalle regioni, che buttano soldi pubblici in imprese che al 70% falliscono - come dimostrano i dati ufficiali - e lasciano chiudere, senza battere ciglio, le aziende che invece producono ricchezza. Questa è l’Italia!”.

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